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DOM dei SAN LEO, parlano la natura, l’alchimia e l’esoterismo medievale

DOM dei SAN LEO

parlano la natura, l’alchimia e l’esoterismo medievale
Oggi postrock.it parlerà di DOM dei SAN LEO.


Come è mio stile fare, scriverò questa recensione durante l’ascolto dei brani. Già prima di fare play, comunque, sono rimasta molto stupita dalla scelta delle tematiche di questo duo. Leggere l’introduzione al loro album e la loro biografia è stato sufficiente per attirare la mia attenzione. Il duo di Rimini, infatti, attivo dal 2013, si è da sempre ispirato all’esoterismo medievale, all’alchimia, alla forza primordiale degli elementi naturali. E con queste nozioni appena lette, mi tuffo nell’ascolto vero e proprio.



La prima traccia si intitola “L’antico monile era custodito all’interno della tempesta di sabbia: a causa del suo fascino molti non avevano fatto ritorno”. Interessante innanzi tutto l’idea di mettere un breve riassunto, una spiegazione di quello che si andrà ad affrontare durante l’ascolto.

Il brano simula, spiegazione data dai musicisti, una tempesta di sabbia che si raccoglie, dopo il turbinio musicale iniziale, in una melodia. Un pacifico arpeggio prima della tempesta, infatti, attira l’attenzione dell’ascoltatore. Il suono è mio parere volutamente sporco, ibrido “kraut-rock”, lo definiscono loro, in salsa post-hardcore. Dal quinto minuto circa, infatti, ritorna la tempesta, ritmiche particolari, sound aggressivo che si conclude con l’eco di una calma apparente. La forza della natura si percepisce come innata, si percepisce come qualcosa di indomabile, lontana dalla nostra umana prospettiva delle cose. Molto lontana.


La seconda traccia è “Riportati alla vita dal freddo severo dell’alba, si risvegliarono nella distesa di erba inaridita: un incendio di colori in cielo, i palmi delle loro mani aperti in un gesto di totale determinazione”. La calma apparente del brano precedente sembra continuare con questo inizio melodico, riflessivo, sinistro. Inquietante il messaggio musicale che viene percepito, atmosfere cupe, quasi “doom”, eccezione fatta per la scelta dei suoni. Anche in questo brano, bisogna attendere il quinto minuto circa prima dell’esplosione, nuovamente le ritmiche capovolgono la situazione, i riff lenti s’intrecciano con le creative percussioni, per poi lasciar stridere le corde come le unghie su una lavagna. Accenni di synth verso la fine danno un tocco più sperimentale al crudo suono iniziale

“Il tuffo nell’acqua gelida e giù attraverso filamenti di luce liquida, affondando nelle tortuosità di un antico tormento” è un ascolto decisamente differente dagli altri due. Le sonorità sono più limpide, più pulite, selezionati riff che ricordano il free-jazz fusi ad un rock psichedelico non tradizionale. Forte senso di inquietudine viene trasmesso nel finale, forse si tratta proprio del tormento citato nel titolo.

Concludiamo con “Intrappolato in un sogno ricorrente, percorrendo l’oscuro corridoio su un tappeto di ossa, richiamato da echi di voci lontane”. Il brano mostra perfettamente la creatività ritmica del batterista, cosa che tra l’altro avevo appreso anche durante i precedenti ascolti. Le ritmiche sono particolari, mai scontate, un approccio quasi da percussionista d’orchestra più che da batterista di un duo. Si percepisce ill feeling con la chitarra in una serie di numerosi botta e risposta tra i due strumenti, distorsioni elettriche si miscelano con sonorità crude e sporche.




Consiglio di ascoltare questi ragazzi soprattutto per l’inventiva, la creatività ed il coraggio di esprimere loro stessi e la loro arte con un prodotto così selettivo ma davvero valido. Un ascolto di nicchia che consiglio a tutti coloro che vogliono soffermarsi qualche secondo in più sul classico ascolto. Un ascolto non basta, un po’ come la lettura impegnativa di un buon libro. Bisogna leggerlo più volte per assaporare ogni dettaglio, ogni particolare, ritrovandosi su una pagina e dicendo: “Però… questa parte non ricordo di averla mai letta!”.

Ed è questo il bello degli ascolti più impegnativi. Forse non sono per tutti, forse non sono commerciali, forse rimarranno di nicchia per sempre, ma a noi piace rimanere tra “quei pochi” che non vanno subito oltre ma si soffermano. Un pochino di più, a volte… basta solo un pochino, per andare oltre.

Voto: 8

Tracklist:

  1. L’antico monile era custodito all’interno della tempesta di sabbia: a causa del suo fascino molti non avevano fatto ritorno.
  2. Riportati alla vita dal freddo severo dell’alba, si risvegliarono nella distesa di erba inaridita: un incendio di colori in cielo, i palmi delle loro mani aperti in un gesto di totale determinazione.
  3. Il tuffo nell’acqua gelida e giù attraverso filamenti di luce liquida, affondando nelle tortuosità di un antico tormento.
  4. Intrappolato in un sogno ricorrente, percorrendo l’oscuro corridoio su un tappeto di ossa, richiamato da echi di voci lontane.

Membri:

Marco Tabellini / m tabe – chitarra
Marco Migani / inserirefloppino – batteria

Registrato e mixato da Luca Ciffo / Fuzz Productions agli studi M24 di Milano
Masterizzato da Riccardo Gamondi al Fiscerprais studio Novembre 2016 Artwork / inserirefloppino

Prodotto da – BleuAudio (http://www.bleuaudio.com) / E’ un brutto posto dove vivere (https://eunbruttopostodovevivere.wordpress.com) / Brigadisco (http://www.brigadisco.it) / DreaminGorilla Records (http://dreamingorillarecords.is/wordpress/) / Vollmer Industries (https://www.facebook.com/VOLLMERindustries/) / Tafuzzy Records (http://www.tafuzzy.com) / Upwind Production (https://itsupwindproductions.tumblr.com)





Contatti:

http://sanleo.bandcamp.com/

https://www.facebook.com/sssanleooo

[email protected]

Booking:

[email protected]

J. – Postrock.it

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I “John Malkovitch!” ci catapultano in una nuova dimensione sonora. Un viaggio da percorrere.

John Malkovitch!

Ci catapultano in una nuova dimensione sonora
“Eerie” è uno stato d’animo, il racconto in musica della degenerazione tecnologica, un disco dai suoni alienanti che mescola kraut rock, elettronica e space rock con derive psichedeliche.”


La recensione di quest’oggi nasce sulle note e sulle atmosfere di un progetto chiamato “John Malkovitch!”, fondato nel 2016 a Todi. “The Irresistible New Cult of Solenium” è uscito nel gennaio del 2018, co-prodotto da più labels, con l’intento di catapultare l’ascoltatore in una dimensione sonora tridimensionale. Andiamo ora ad analizzare ogni singolo brano, per capire se ci sono riusciti.

“Darker Underneath the Surface” è il primo brano dei quattro, nonché mio primo ascolto. Questi ragazzi sono riusciti già dai primi suoni a trasmettermi un senso di inquietudine, crearmi una sorta di instabilità mentale, come quando stai facendo un sogno lucido e non hai ben chiaro se stai realmente sognando o c’è un fondo, anche piccolo, di realtà. Dura circa un minuto questa reazione quasi d’ansia, per addolcirsi flebile con l’entrata della chitarra. Delicata, dolce, una piuma in mezzo all’instabilità di una dura e nuova dimensione. Si fa attendere la vera e propria apertura della canzone, circa sui quattro minuti, ma è un’attesa che si sposa perfettamente con il genere e che ti soddisfa totalmente quando giunge.



“Twice In a Moment, Once In A Lifetime”, la seconda traccia, non si fa attendere quanto la prima. Già intorno al secondo minuto, si fa conoscere, si fa sentire, ti spinge a proseguire l’ascolto in questo turbine di sensazioni. Man mano che l’ascolto prosegue, questo tunnel d’incoscienza si fa sempre più astratto e concreto allo stesso tempo. E’ reale o meno, è concreto o meno, è un sogno o meno? Ti inghiotte sempre di più, un ascolto profondo, ma del resto, si sa… chi vuole ascoltare qualcosa di poco impegnativo, non si fionda sicuramente nel post rock. Sì, è un ascolto impegnativo, come tutta la musica che ha un valore, come tutta la musica che ti spinge ad andare oltre, a pensare, a riflettere su quello che siamo, su cosa siamo.

E si placa il tunnel, a circa cinque minuti. Rallenta, ritmi cadenzati, costanti, a volte quasi affini al doom, scuri come lo stoner. E in questi momenti di “pausa” ti poni delle domande, hai quasi il tempo sufficiente per rispondere. Forse stai quasi per darti qualche risposta, ma non ne hai il tempo. Perché la cassa batte come un tamburo e non dona sentenza alcuna, si riprende il percorso proprio quando pensi di aver raggiunto qualcosa. La tua mano si allunga, stai quasi per afferrare qualche certezza… ma spariscono, nel nulla. E nel minuto nove, ti ritrovi in un altro mondo, quasi fosse un’altra canzone. Rabbia, caos, instabilità forse, guerra. Le certezze che credevi di aver raggiunto ti hanno abbandonato, ti guardi attorno, cerchi un appiglio, ma non trovi niente. Emozionante.



“Zenit” parte come un risveglio, la quiete dopo la tempesta. Immagino degli occhi che iniziano ad aprirsi, lentamente, ad osservare in maniera confusionaria l’orizzonte. La traccia che trovo più malinconica, più sentimentale, forse. E per questo, forse, la mia preferita. La chitarra pulita dal terzo minuto ritorna con quel tocco delicato del primo brano, miscelandosi perfettamente con i synth, l’ambiente e tutto quello che è stato creato attorno ai suoni principali di questa traccia. Come una vera e propria rapsodia cambia più volte, varia, lasciando immaginare nuovi spazi e nuovi orizzonti per raggiungere poi il finale, dove le chitarre stridono come urla umane.
Buio e notturno l’inizio di “Nadir”, quarto e ultimo brano di questo disco. Nella mia mente appaiono porte che scricchiolano, un cammino lento e inquietante, decisamente opposto al senso di speranza e di risveglio che riscontro invece ascoltando “Zenit”. Tutto questo fino al quinto minuto, dove immagino una corsa sfrenata verso una presunta salvezza, scappando da ogni sorta di paura, la paura dell’ignoto.
Un viaggio e un senso logico, in sole quattro canzoni.



Questo è stato il mio personale “viaggio”, ascoltando questo splendido album. Non è detto che le mie sensazioni siano esattamente quelle che questi ragazzi volevano trasmettere, così come non è detto che voi proviate le mie stesse sensazioni.
Ma le ho provate. E questo è sufficiente per consigliarvi di ascoltarlo.

Voto: 9

Tracklist:

    1. Darker Underneath the Surface
    2. Twice In a Moment, Once In A Lifetime
    3. Zenit
    4. Nadir

Membri:

Luca Santi – Chitarra
Leonardo Tommasi – Chitarra
Manuel Negozio – Basso
Francesco Tiberi – Batteria

Etichetta:



Dingleberry Records
I Dischi del Minollo
Edison Box
Mehr Licht Records & False Hopes

Contatti:

 
J. Postrock.it
 
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I Windbreak portano il loro sperimentale Post Rock dal Portogallo, con “Define Us”!

Windbreak

Define Us
I Windbreak portano il loro sperimentale Post Rock dal Portogallo, con “Define Us”!


I Windbreak sono una band portoghese che abbracci diversi generi, proprio come è di mio gradimento. Si definiscono post rock/post Metal, ma mi azzardo ad aggiungere che la loro musica esclusivamente strumentale ha diverse influenze anche progressive, come è di mio gradimento.

L’album che sto ascoltando in questo momento, il loro primo e unico attualmente, si intitola “Define Us”. Il modo migliore per recensire un album, a mio parere, è farlo proprio mentre lo si ascolta. Perché ti lasci cullare dal suono nella sua essenza, fin dalla prima nota, senza lasciarsi influenzare da pensieri o paragoni. Semplicemente musica.

Si intuisce fin dalla prima traccia, Native Soil, che non è una semplice canzone scritta e pubblicata, ma è il punto di partenza di una storia. E man mano che continuo ad ascoltare, mi accorgo di quanto la loro musica sia un viaggio tra mille luoghi, forse concreti, forse personalizzabili per ogni ascoltatore. “Hidden Cross”, la continuazione, più ambiente, più melodiosa, i synth sembrano la carezza delle onde del mare, tra venti e rumori di sottofondi affatto casuali. La chitarra parte morbida, pulita, in quello che sarà la continuazione di questo viaggio, fino a raggiungere “Magnolia”, terza traccia dalla partenza più ritmata, dalle note taglienti e dall’atmosfera combattiva. Ecco che la parte post rock inizia lentamente a lasciare spazio a qualcosa di più progressivo. Si intuisce da questo incipit, fin quando la canzone non raggiunge un finale più aggressivo, che continuerà di fatti con “Klameth”, dove la chitarra distorta dona il suo primo avviso di quanto possa essere aggressiva la musica nella sua progressione. E di fatti questo brano evidenzia la loro influenza Post Metal più di ogni altro, probabilmente, di tutto l’album. Si distaccano dagli altri generi sopra citati, in questi ultimi due minuti di canzone, sia per l’assolo di chitarra, sia per la cavalcata finale che, chi ama la sperimentazione comunque, non dovrebbe disprezzare. “From The Ashes” ha una partenza aggressiva, con l’inserimento di una voce e di una linea vocale. Un urlo che lascia comunque trasparire, seppur celata, una linea melodica facilmente tracciabile.





Personalmente preferisco la musica strumentale, ma le sperimentazioni sono sempre ben accette, soprattutto da band che amano osare, come i Windbreak. Ritorniamo però intorno al quarto minuto di ascolto nel paradiso dell’influenza post rock che fortunatamente non ci ha abbandonato del tutto, con le chitarre più lente, melodiche, cadenzate ma mai noiose, così come la batteria, fino all’esaurimento dell’energia iniziale, con un finale lento e riassestante, che ho apprezzato davvero molto. Arriviamo così all’ultima traccia “Stargazing”, l’apertura con un arpeggio accompagnato da un giro di basso che ha questa volta maggiore valore rispetto al resto dell’album, è un punto a favore, così come la scelta di aggiungere il suono di un sax, tornando così sulla scena prog.

https://www.youtube.com/watch?v=cpGts0sXB6c


Tutto sommato è un genere che mi piace, vedo nei Windbreak del potenziale e attendo con ansia altri loro lavori.

Voto: 7 e mezzo

Tracklist:

  1. Native Soil
  2. Hidden Cross
  3. Magnolia
  4. Klameth
  5. From the Ashes
  6. Stargazing

Membri:

Sérgio Pinho – Chitarra, voce
Hugo Amorim – Batteria
Eduardo Pinho – Basso
João Almeida – Chitarra

Label:

https://www.facebook.com/OutroRecordsLabel/

Contatti:

Bandcamp: https://windbreak.bandcamp.com/releases
Spotify: https://open.spotify.com/album/0feTOnKvfndh3FlHZfXETO
Instagram: https://www.instagram.com/windbreakband/
Twitter: https://twitter.com/windbreakband
Facebook: https://www.facebook.com/windbreakofficial/

J. Postrock.it


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Harmonices Mundi dei Norma Cluster, nella piena armonia del mondo

Harmonices Mundi

Norma Cluster
Harmonices Mundi dei Norma Cluster, nella piena armonia del mondo


Un EP che merita davvero di essere ascoltato.

Sto parlando dei Norma Cluster.

Ottima presentazione di partenza con il loro “Harmonices mundi”, e già il titolo devo dire che mi attirava, prima ancora di cominciare a sentire i tre brani.

Partiamo dal primo, 1572 Supernova, con cui la band di Vercelli decide di aprire la triade. E non solo, in quanto è stato il vero e proprio singolo d’esordio un paio di anni fa. GIà, perché dopo ben due anni, i Norma Cluster hanno dato vita ad Harmonices Mundi, precisamente il 15 febbraio del 2017.

Chitarra pulita, nitida, un sottofondo di immancabili synth che rendono atmosferico tutto l’ambiente sonoro in cui ci troviamo in questo momento. E da cui faccio, personalmente, fatica ad uscire. Soprattutto quando a pochi secondi dal terzo minuto, arriva la tanto attesa apertura del brano, che si completa qualche secondo più avanti con la scelta di un synth ulteriore che diventa protagonista, con una melodia predominante. La chitarra in tutto questo accompagna, senza mai risultare noiosa, fino al termine del brano, degno di una colonna sonora. Non ci delude neanche la seconda scelta, Tychonian, nonostante i suoi sette minuti. Già, perché cari lettori, se siete tra quelli convinti che la musica debba durare non oltre i tre minuti di ascolto, avete proprio sbagliato genere musicale da seguire. La musica non durata, la musica è musica e scorre nei nostri animi e nei nostri strumenti, nelle nostre orecchie, nel nostro corpo. E i Norma Cluster ci sono riusciti, con un sound sconvolgente, molto simile ai God Is an Astronaut, soprattutto durante l’apertura sonora dei brani, come avviene al minuto due di Tychonian, dove synth melodiosi si intrecciano come un docile disturbo alle chitarre, mentre la batteria in tutto questo non fa altro che donare una ritmica semplice ma cadenzata, fondamentale per il genere che non occorre di virtuosismi quanto invece di sentimento.

E niente parole per l’ultimo brano, “Primum movens”, in assoluto il mio preferito. La descrizione ed il sentimento che ha evocato in me è stato molto forte, come tutte le band che hanno la capacità di trasmettermi qualcosa di profondo. Attualmente i Norma Cluster sono a lavoro per del nuovo materiale e personalmente non vedo l’ora di poter ascoltare le loro nuove uscite.

I tre brani si collegano perfettamente tra di loro, i suoni sono stati accuratamente scelti e si sente, così come la qualità di registrazione. Forse avrei preferito sentire una maggiore dinamicità all’interno dei brani, più cambi e maggiori evoluzioni sonore. Ma non è detto che non si riesca a sentire questo piccolo tassello mancante nelle nuove registrazioni in arrivo.

Buon lavoro quindi ai Norma Cluster, attendiamo tutti le nuove uscite!

Voto 8

Membri:

Eugenio Nicolella: Chitarra
Emanuele Peluffo: Basso
Marco Massa: Batteria
Nicolò Zappariello: Basso
Giacomo Pirovano: Chitarra 
 

Contatti:

Facebook: https://normacluster.bandcamp.com
Bandcamp: https://normacluster.bandcamp.com

Tracklist:

  1. 1572, Supernova
  2. Tychonian
  3. Primum movens
 

J. Postrock.it

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Wailing Of The Leonids dei When the Light Dies, una rivelazione dalla svizzera.

Wailing Of The Leonids

When the Light Dies
Solo il nome di questa band Svizzera (di La Chaux-de-Fonds) mi ha dato l’idea che fossero già “Famosi”. Non so perchè. Forse perché mi ricorda qualche altra band, forse perché semplicemente ci hanno azzeccato e basta.


L’Album che presentiamo oggi, uscito il 10 Marzo del 2017, si intitola “Wailing of The Leonids”, sotto l’etichetta Vitruve Records. 

L’Intro, The Ascent, catapulta immediatamente in un nuovo mondo. Il rumore del vento, con un sunto leggero in sottofondo di qualcosa di “alieno”, mi fa venire in mente un teletrasporto all’interno di una navicella spaziale. Non so se era esattamente questo il loro intento o meno, ma mi ha causato questa sensazione, coperta da un velo di inquietudine generale. E le emozioni forti, a me, son quelle che piacciono di più. Questo “rumore”, che poi rumore non è, ti lascia in una sensazione di sospensione fin dall’inizio, il synth appare più chiaro e delineato nell’ultimo minuto di Intro, una suspance un po’ horror che si conclude di netto, continuando come un “concept” vero comanda, con “The Irrelevant (question of time and distance)”. Appare una chitarra, dal nulla, poi una batteria, e qui il pezzo reale incomincia. Più potente e meno delicato di quanto possa essere il postrock al loro cospetto, direi che la loro influenza postmetal è più accentuata, sia come scelta di suono che come arrangiamento generale. La parte melodica appare comunque, immancabile, quasi al terzo minuto, proseguendo con una parte più carica dalle armonie delle chitarre ben delineate, definite, curate.

Con “Kassier Syndrome” rimangono all’attivo i suoni freddi e permane nella mia mente lo stesso scenario futuristico dell’inizio, con un’atmosfera se possibile ancora più pesante. I dieci minuti che trovo sulla barra d’ascolto non mi scoraggiano per niente, anzi, mi spronano ad andare avanti, fino alla fine, per sapere quale sarà lo scenario post-apocalittico che seguirà questo terzo step del concept album. “Divine” e “Nebula” sono sicuramente i brani più nitidi, luminosi, “allegri” per così dire dell’intero album. Sembra che l’atmosfera cupa dell’inizio si sia leggermente allontanata. Si alternano parti più aggressive a suoni melodici tipici dell’arrangiamento post rock strumentale, ma le armonie e la scelta dei suoni sono decisamente schiarite, soprattutto in “Nebula” che ha apparentemente il classico approccio di una ballata che va poi ad esplodere quasi al settimo minuto d’ascolto. Il mio punto in assoluto preferito dell’interno album. Undici minuti e cinquantadue secondi che non saranno tempo sprecato, ve lo assicuro. 

Con “Helix” (the eye of god) ritorna un suono scuro, decisamente più minaccioso dell’inizio, che ricade nell’arrendevolezza di queste poche note al  pianoforte negli ultimi secondi di traccia, che ricordano quasi lacrime scorrere lente. Con il fiato sospeso attendiamo l’ultima canzone, dal titolo dell’Album stesso. Ululati appaiono alle mie orecchie, suoni caotici, quasi come l’inizio, ma che hanno tutto un’altro sapore a fine brano. I synth futuristici riappaiono senza indulgenza, lasciando spazio lentamente alla chitarra, fin quando l’epopea del brano non spazza via ogni cosa: la parte più epica di tutto l’album appare di colpo circa al settimo minuto. Scene appena la dinamica dopo poco, per esplodere qualche minuto prima della fine, una seconda volta. Questa volta in modo radicale, definitivo. Un Caos però ben studiato, delineato, che non genera confusione ma bensì chiarezza a chi ascolta. A me, ha dato l’idea che questa navicella spaziale abbia preso il volo. 

I When the Light Dies non hanno nulla da invidiare a band da cui traggono ispirazione come Russian Circle, Isis o Pelican. 

Un vortice strumentale di estrema bellezza. Una vera rivelazione.

Voto: 9

Tracklist: 

  1. The Ascent (Intro)
  2. The Irrelevant (question of time and distance)
  3. Kessier Syndrome
  4. Divine
  5. Nebula
  6. Helix (the eye of god)
  7. Wailing of the Leonids

Contatti:

http://wtld.bandcamp.com

www.soundcloud.com/wtld

www.igroove.ch/product/1089/ep/

www.twitter.com/Whenthelightdies

J. Postrock.it

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Echo Atom: un trio postrock/prog che merita davvero.

Echo Atom

Un trio postrock/prog che merita davvero
Dopo queste vacanze natalizie appena trascorse, beh, è un piacere ripartire con gli Echo Atom.


Questi tre ragazzi (Walter Santu – chitarra, Giuseppe Voltarella – basso e Alessandro Fazio – batteria) si sono riuniti nel luglio del 2016 creando questo sound dalle chiare tendenze post rock/progressive. Musica puramente strumentale e che quindi parte con un punto a favore per mio gusto personale.

Su Soundcloud potete ascoltare solo tre brani, ma ne vale davvero la pena incominciare da questi, con la speranza di avere al più presto un Album tra le mani.

Redemption è il loro primo singolo, prima canzone che potete ascoltare sul sopracitato sito.

A primo impatto sono apparsi nella mia mente gli Explosions in the Sky. A tratti, ho visionato i Caspian, proprio perché la chitarra sembra essere lo strumento principale in questa prima canzone. Un viaggio attraverso vari scenari il cui scopo ultimo è chiaramente la redenzione. Le immagini subentrano nitide davanti agli occhi semplicemente ascoltando, il che significa che sono riusciti nel loro intento.

La seconda canzone Path, è caratterizzata da un bel giro di basso, che dona un valore aggiunto rispetto alla prima canzone. La chitarra non passa comunque mai in secondo piano, soprattutto nell’ultima parte della canzone che assume un sound più moderno che non mi dispiace per niente. Sono sempre pro sperimentazione, soprattutto quando si possono fare grandi cose con solo tre strumenti. Il brano non risulta mai vuoto, nonostante tutto, ed è una grande riuscita.

L’ultimo brano, che sto ascoltando proprio in questo momento, si intitola Awakening.

Chissà perché ogni volta che ascolto la “terza canzone”, in generale, di qualche album… trovo sempre che sia la più bella. Ed anche in questo caso è così, secondo mio gusto personale. L’inizio della canzone è post rock allo stato puro, si crea finalmente l’ambient che ho sempre ricercato in ogni singola canzone che ascolto. La chitarra non abbandona un giro armonico molto orecchiabile, unendo un urlo strumentale che appare quasi come un synth. Dopo il primo minuto, anche meno, la parte “prog” che influenza il trio ritorna in vita anche in quest’ultimo brano, unendo, amalgamando, fondendo completamente i due generi.

Che dire, Echo Atom, ottimo lavoro… e adesso aspettiamo il vostro disco!

Voto: 7 

Tracklist:

1. Redemption
2. Path
3. Awakening

Membri:

Walter Santu: Chitarra
Giuseppe Voltarella: Basso
Alessandro Fazio: Batteria

Contatti: 

https://soundcloud.com/user-241124265

https://www.facebook.com/echoatom/

J. – Postrock.it

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Ritornano i Do Make Say Think con l’album Stubborn Persistent Illusions

Do Make Say Think

Stubborn Persistent Illusions
Ritornano i Do Make Say Think con l’album Stubborn Persistent Illusions


Do Make Say Think. Carriera ventennale, sicuramente non si tratta di musica emergente. Sono stati in grado di creare un mix tra il jazz, il rock progressivo e chiaramente l’elettronica. Tutto questo, riunito in un solo genere? Post Rock.

Stubborn Persistent Illusion è un album autoprodotto che si ispira alla filosofia buddhista, un ambient in grado di trasportarci in un’altra dimensione, senza dubbio.

Partiamo già con l’atmosfera creata da War On Torpor: senza fiato. In un unico brano, si passa dall’atmosfera cupa a più vivace, un’esplosione che incombe nelle nostre orecchie, per poi catapultarci in un mondo ancora diverso da quello precedente. Una rapsodia che non analizza l’album per interno, ma canzone per canzone, addirittura. Le ritmiche e le armonizzazioni strumentali sono accurate, studiate, mai banali. Se vi annoia, signori, avete sbagliato genere.

L’utilizzo dei fiati e tastiere synth è una caratteristica piuttosto peculiare della band, il come, il modo, lo stile, l’arrangiamento a tratti dall’animo jazzistico. Una caratteristica inconfondibile, come possiamo sentire nell’introduzione di Bound. Un arpeggiatore che sinceramente saprei riconoscere tra mille, dal tocco spaziale. Ancora di più in Return, Return Again, di cui mi hanno affascinato più che altro i tempi, la prima preferita. A mio parere non annoia mai l’idea di trasmettere in musica un’idea o una filosofia. Certo, lo hanno fatto in molti. Ma l’importante è farlo bene, non farlo e basta. E i tratti selvaggi, addolciti dall’uso dei fiati, lasciando trapelare una reazione selvaggia ed allo stesso tempo sognatrice.

Un sogno quindi lucido o ad occhi aperti, una realtà apparente, tutto quello che ci vuole in una band di musica strumentale in grado di farti viaggiare. Ascoltate immaginando un video che scorre, paesaggi creati dalla vostra mente, con delle immagini a vostra scelta, reali o impalpabili.

Se questo accade, i DMST sono riusciti nel loro intento.

Voto: 8

Tracklist:

1. War On Torpor
2. Horripilation
3. Murder Of Thoughts
4. Bound
5. And Boundless
6. Her Eyes On The Horizon
7.As Far As The Eye Can See
8. Shlomo’s Son
9. Return, Return Again

J. Postrock.it

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Post Rock

Postrock: istruzioni per l’uso

Postrock

Istruzioni per l’uso
Postrock.
Un mistero per molti. In Italia, ancora oggi una parola che genera confusione. Molti preferiscono non parlarne. Altri usano semplicemente altri nomi. Ma la realtà è che il Postrock è un genere ibrido, che si è formato insieme al significato stesso del nome, e che ancora oggi si plasma intorno ad una musica che alcuni semplicemente non riescono a descrivere.

Molti sono i generi da cui il post rock attinge le proprie radici. A partire dagli anni ’80, ci si trovò di fronte al problema di non riuscire semplicemente a dare una definizione a tutta quella serie di band sperimentali e psichedeliche che si andavano formando. Dopo la fusione tra elettronica, musica blues e tradizioni folkloristiche, nel mondo si è andata via via formando una lista infinita di generi musicali: dall’hard rock al heavy metal, dal punk al trash metal, dalla psichedelia alla musica elettronica.

Nonostante agli inizi degli anni ’80 ci fosse già un range molto ampio di generi musicali sotto il quale etichettare tutte le varie band di fama internazionale, improvvisamente ci si trovò di fronte a qualcosa che non si era mai sentito prima. Alcune band, infatti, cominciarono a mischiare tra loro i generi musicali a tal punto che era impossibile definire quale fosse la radice del suono. Fra i gruppi “fondatori” del genere (ovvero fra i primi gruppi ai quali l’espressione post-rock fu riferita in modo sistematico, fino a identificarla con il loro stile) ci sono i Slint e i Tortoise (fra gli album di quest’ultimo gruppo fu molto influente, in particolare, Millions Now Living Will Never Die), ma anche gruppi come i Talk Talk che sul finire degli anni ’80 rivoluzionarono la loro musica (in precedenza erano synth-pop). sono accreditati come tra i fondatori del post-rock.

Ed ecco che naque la parola magica: Postrock.

L’espressione fu coniata da Simon Reynolds in un articolo sul numero 123 della rivista musicale The Wire (maggio 1994) e si riferiva originariamente a gruppi come Stereolab, Disco Inferno, Seefeel, Bark Psychosis e Pram;

Molti sono tentati di snobbare questo nome in quanto apparentemente troppo generico. Eppure Postrock è un nome che nasconde un significato ben più grande, e non basta un primo sguardo per capirlo.

Insomma, eccoci arrivati alla fatidica domanda: che cos’è il post rock?

Il post rock è la musica Non conforme. non conforme ai canoni della società, della politica, delle etichette discografiche e delle emittenti radiofoniche e televisive. Il post rock è la musica non etichettabile.

Molto spesso il post rock viene associato alla musica strumentale, ma la verità è che la musica sperimentale è aperta a 360° e non si limita a niente.

La musica non conforme è quella musica che sperimenta sonorità in modo insolito, che riesce ad accostare elementi e suggestioni completamente differenti e non usuali nella musica attuale, formando quello che possiamo definire un Ibrido.

Che cos’è un ibrido?

In senso colloquiale, senza alcuna connotazione scientifica, per ibrido si intende un organismo, reale o di fantasia, spesso con caratteristiche mostruose, che coniuga le caratteristiche di due esseri anche completamente differenti, e per estensione si proietta metaforicamente per similitudini, il concetto anche al di fuori dei viventi come ad esempio in veicolo ibrido, in letteratura riferito a parole composte in modo eterogeneo, eccetera.

In senso scientifico, un Ibrido è un individuo generato dall’incrocio di due organismi che differiscono per più caratteri, che nell’ambito delle scienze biologiche ha differenti significati.

Ed ecco che la musica post rock diventa finalmente il tassello mancante del mosaico, quel mosaico della musica che, dopo un estremo processo di cristallizzazione, aveva intrapreso un processo di cristallizzazione destinato a entrare in conflitto con la realtà attuale.

La verità è che catalogare la musica non è più semplice come lo poteva essere cinquanta o sessant’anni fa. Il progresso culturale, economico e soprattutto tecnologico ha creato non pochi problemi nella nomenclatura musicale.

Improvvisamente le persone si trovano di fronte al problema di non saper più distinguere realmente un genere dall’altro: chi suona cosa? Il dj è un musicista? Le basi sono da considerarsi una musica live? Cosa fa di una persona un musicista?

Il post rock è questo. È un genere che non teme confronti, che non ha bisogno di definizioni rigide, ma che si plasma seguendo la morbidezza con cui si forma e si adatta la società moderna. È un genere disposto ad accogliere tutto, ma che facilmente si definisce seguendo questa pista che si è andata formando con esso: una musica fuori dagli schemi, una musica traportante, avvincente, indefinibile. Una musica ribelle se vogliamo, che non accetta di sottostare sotto un unico genere.

Il post rock è una musica quantica, dove un valore non è più assoluto, dove posizione ed energia sono un tutt’uno e non è più possibile stabilire entrambe nello stesso momento.

Alcuni di voi sicuramente ricorderranno il celebre paradosso del gatto di Schrödinger, con cui il fisico austriaco descrisse come la meccanica quantistica diventasse assurda se applicata ad un sistema macroscopico. Il gatto è vivo o è morto?

La risposta è che il gatto è sia vivo che morto.

Allo stesso modo, vi invito ad ascoltare band come Alcest, God is an astronaut, Sigur Ros e a rispondere: che genere è?



Alcuni si aggrapperanno ad alcune sonorità piuttosto che ad altre, e finiranno con una generalizzazione estremamente limitativa e incapace di contenere un contenuto musicale così ampio. I generi sono ormai contenitori troppo piccoli e non possono più contenere la grandezza di certe sonorità.

Il post rock è un genere in grado di adattarsi al proprio contenuto, a plasmarmi su di esso, e di crescere ed evolversi con esso. È un genere che non teme l’evoluzione umana o il progresso tecnologico, perchè parte dal presupposto che tutto è in evoluzione ed è destinato ad unirsi. Le popolazioni sono destinate ad unire le proprie culture, a dare vita a movimenti di pensiero nuovi, e tutto questo è un richiamo a liberare finalmente la musica dalle briglie in cui ci ostiniamo a intrappolarla ormai da troppi anni.

Il post rock è la musica. Senza limiti.

Benvenuto nel portale dedicato alla musica Postrock. Cosa aspetti? immergiti nelle nostre recensioni.

Paul – Postrock.it