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OKTOPUS PROVANCE – UNDERNEATH THE SUN

Oktopus
Provance
Underneath the Sun
Oktopus Provance escono potenti dalle casse dello Stereo con un album Rock intenso e trasparente, con un inconfondibile sapore Post Rock.
Oggi allarghiamo un pò le nostre vedute, per parlare di un progetto che non si definisce Post Rock, ma dai sapori e dai contorni sperimentali. 

È sempre un piacere ascoltare band come gli Oktopus Provance. Quando la musica è fatta bene, è fatta bene. Questo quintetto ci convince subito, fin dal primo pezzo. Ci presentanto un range sonoro molto ampio, che spazia dal Rock, al Post Rock, lanciandosi in Riff potenti e dalle chiare influenze Stoner. Questi ragazzi non si precludono nessuna strada, anzi decidono di sentirsi liberi di esprimere tutta la loro arte in questo “Underneath the Sun”.

La voce chiara e cristallina del cantante tiene alti i riflettori fin dal primo brano, mentre riff di chitarre piacevolmente Ambient si accompagnano a momenti potenti e adrenalinici, seguiti fedelmente dalle percussioni, incisive al punto giusto, e da un basso che sa riempire le frequenze giuste, senza strafare, ma tenendo le giuste vibrazioni.

10 brani, 51 minuti di musica rigorosamente nostrana e originale. L’Italia da sempre ha fatto scuola nella musica sperimentale, e questi ragazzi tengono alta la nostra reputazione, con atmosfere psichedeliche e dense di immagini.

Tra i brani che mi hanno colpito di più c’è Eclipse, un momento strumentale degno di nota, con arpeggi di chitarra che si disperdono in una nebbia di pattern synth alla God Is An Astronaut. Un assoluto momento di piacere Post Rock.

Active Generator. Si apre con un super Riff dal sapore Stoner, per lanciarsi in un momento cantato quasi sognante. Questo brano è l’emblema della sperimentazione. Qui troviamo non soltanto cambi di intensità, ma anche cambi di tempo (che il batterista sa giocare con intelligenza, senza cadere nello scontato) e intenzione, creando un viaggio musicale che rende piacevole l’ascolto fino alla fine (non male per un brano di ben 7:17)

Oktopus Provance sanno quando colpire duro, ma sanno anche quando lasciarsi andare ai momenti più delicati e romantici.

Space Cowboy. Come suggerisce sapientemente il titolo, questo brano mischia un sound decisamente Country Folk con sonorità spaziali e di ambientazione, con un risultato davvero interessante.

Nel complesso ci ha impressionato positivamente il progetto, e siamo felici di aggiungere questa recensione al nostro portale. Ci piace ogni tanto uscire dalle righe per raccontarvi di cosa combinano i nostri ragazzi italiani al di fuori del Post Rock, e gli Oktopus Provance ci dimostrano che la sperimentazione si può mettere dappertutto, e in qualsiasi genere.

VOTO: 7

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Paul – Postrock.it

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A GOOD MAN GOES TO WAR – THE SOUND OF A LARGE CROWD

A Good Man
Goes to War
The sounds of a large crowd
The Sound of a Large Crowd è un Album che contiene molto più di 7 canzoni. Questo lavoro racchiude un gioco di suoni, colori e immagini che ne fanno la colonna sonora ideale per un film Post Apocalittico
A Good Man Goes To War, da Torino arrivano fino al nostro Stereo con un album di enorme impatto sonoro.

I ragazzi escono con il loro primo album nella primavera del 2020, nel pieno della prima ondata di pandemia globale, e nella mia mente sono la colonna sonora ideale per questo scenario post apocalittico e surreale in cui ci troviamo a vivere.

Un album che dimostra una maturità sonora impressionante per un primo album. Ambientazioni cinematografiche miste a impressionanti riff monolitici che ci investono e con tutta la loro potenza.

1- Improvising. La Overture di questo album è diretta, senza troppi giri di parole, abbiamo subito un assaggio di quello che il gruppo riesce a sfornare. Suoni di pianoforte e synth si uniscono a percussioni tribali. Il motore si sta scaldando, lo sentiamo. L’ondata sonora è dietro l’angolo. E infatti eccolo, un monolite si erge mastodontico dinnanzi a noi, una chitarra scura e potente che avanza a passi lenti. Basso e Batteria non si risparmiano fin dall’inizio, con un gioco sinergico di ritmiche e sonorità calde, che ci proiettano in un mondo parallelo.

Chiudo gli occhi e mi trovo davanti a un mondo devastato, senza più traccia di vita o di speranza. Un cataclisma forse? Apro la porta e mi avventuro in questo mondo

2- Reflections. I miei passi proseguono incerti, e intanto la mia testa si muove in alto e in basso, tra le macerie di una città che non sembra più esistere. Suoni Synth mi trascinano in questo limbo quasi surreale. Sento qualcosa sotto i miei piedi, guardo in basso, e vedo quel che rimane di una bambola. Chissà a chi apparteneva, chissà se la bambina che la stringeva a sé durante il grande disastro è la fuori da qualche parte. La tengo stretta a me, e una lacrima di incertezza scorre sul mio viso. Alzo lo sguardo ancora una volta, e un raggio di sole fa capolino dietro le macerie del palazzo di fronte. C’è ancora speranza, forse qualcuno è soppravvissuto. Forse un accampamento, da qualche parte. Così il ritmo del brano aumenta, e mi ritrovo a camminare, senza guardare indietro, seguendo quel raggio di sole che mi regala un sogno.

3- All the best memories. È arrivata la notte, e con sè ogni traccia di sicurezza è scomparsa. Davanti a me una vecchia auto, ferma in mezzo alla strada. Apro la portiera e mi nascondo dentro, pronto a trascorrere la notte. Una chitarra sporca piange armonie e traccia dei solchi nell’aria, mentre la batteria lancia una manciata di stelle nell’aria. Il basso vibra costante sotto il nostro suolo, come un eco di qualcosa che si perde nei nostri ricordi. Chiudo gli occhi, ripenso alla mia famiglia, mi chiedo dove siano, e piango come un bambino. Tutti i ricordi affiorano, e gli archi synth mettono a nudo tutta la mia fragilità. Mi lascio andare lentamente, e mi addormento.

4- The bravest moment. Un mattino freddo si presenta davanti a me. Le macerie sono dove le abbiamo lasciate. Ma ora che vedo l’alba, una improvvisa forza mi pervade. Mi sento più forte, più sicuro di me. Apro la portiera, e decido di avventurarmi in questo nuovo mondo. I suoni si susseguono imperativi, sempre più adrenalinici, la batteria incalza, e il rullante intona una marcia di guerra. Vedo morti e dolore intorno a me, ma forse ora ho metabolizzato tutto questo. Guardo avanti, e continuo a camminare, pensando a come sopravvivere a tutto questo. Il basso elettrico mi attira, mi trascina con le sue vibrazioni, e io lo seguo come se fosse un’estensione del mio corpo. Un passo davanti, all’altro, poi inizio a correre, e a correre ancora, senza mai voltarmi, seguendo l’adrenalina che sale. Poi mi fermo, e sento le note di un pianoforte che risuonano nell’aria. Mi volto e ne cerco l’origine.

5- This cold white sky. Lassù, in quel palazzo mezzo distrutto, una ragazza sta suonando note malinconiche. Allora non sono l’unico. Cerco di trovare il coraggio, e supero la soglia di quel palazzo ormai decadente, deciso a raggiungere quel suono. La chitarra di questo intro sembra descrivere la mia ansia, la mia inquietudine. Arrivo davanti alla porta, sento ancora il suono di quel pianoforte che, instancabile e malinconico, risuona intorno a me. La porta è socchiusa, così lentamente entro, cercando di non fare rumore. Mi ritrovo davanti a lei, vedo le braccia e i vestiti logori, l’aria smagrita, gli occhi vitrei, l’ombra di quella che doveva essere una bellissima creatura, ormai senza più vita, mentre suona note dense come la nebbia d’autunno. Decido di mostrarmi a lei, e qualcosa improvvisamente prende vita nei suoi occhi.

6- You have to leave something behind. Dopo un attimo di timore, la povera ragazza decide che si può fidare di me, così in un attimo di disperazione, piangendo silenziosamente, mi abbraccia e ne percepisco tutto il dolore. Ha perso la sua famiglia, durante la notte. Ancora non ricorda come sia possibile, non ha avuto il tempo di realizzare, vedeva solo sangue, sangue ovunque, e sentiva urla, esplosioni, colpi. La ascolto, poi decido di raccontarle la mia storia, fatta anch’essa di dolore e di ricordi. Ora l’andamento del brano cambia decisamente, e i suoni synth si fanno più speranzosi, al tempo stesso quasi solenni.

Alla fine dei nostri dialoghi, cade il silenzio, e un messaggio chiaro si forma nelle nostre menti: “dobbiamo lasciare qualcosa indietro.. per poter andare avanti”

7- Lifeless architecture. E così, ci prepariamo a vivere in questo mondo. Come in tutte le storie, c’è un punto di non ritorno, un momento oltre il quale il protagonista sa benissimo che nulla sarà più come prima. Mi fermo sulla soglia di quella stanza, il mio piede esita, so che facendo un altro passo non potrò più tornare indietro. So che non posso restare in questo posto, devo andare oltre. Chiudo gli occhi, faccio un bel respiro, e proseguo. Le trame di questo ultimo brano si cristallizzano in questo attimo di consapevolezza, costruita su arpeggi di chitarra e percussioni che suonano come se fossero avvolte nel ritmiche di basso. Stringo la mano della ragazza a me, e proseguiamo in questo mondo pieno di pericoli, pronto a combattere, a superare tutto.

Uno spettacolo sonoro e una grande rivelazione sono stati per me questi A Good Man Goes To War. E come tutti i grandi film che si rispettino, ora aspettiamo il prossimo capitolo, il prossimo passo di questa avventura che lascia spazio a molto altro. Come proseguirà l’avventura? I nostri ragazzi torinesi ce lo racconteranno presto.

VOTO: 9

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Paul – Postrock.it

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CORNEA – APART

CORNEA

APART
CORNEA. Semplici e devastanti. Un power trio Postrock che da Padova giunge fino a noi con la potenza di un’intera orchestra.

Cornea è un progetto semplice, senza troppi fronzoli, ma che stupisce per l’incredibile complessità sonora che riesce a creare con pochi strumenti. Un power trio? difficile a credersi dopo aver ascoltato questo piccolo capolavoro, dal titolo Apart.

Non è facile trovare band così mature a livello sonoro, soprattutto in un genere così vasto e libero come quello del Postrock. I Cornea convincono subito per la pasta sonora creata dall’unione equilibrata di Chitarra, Synth, basso e batteria. 

1 – Daydreamer – Un inizio a dir poco sognante quello di Apart, che ci delizia con questo brano e ci catapulta subito nello spazio sonoro dei Cornea. La chitarra rieccheggia nell’aria, seguita da suoni synth brillanti e un basso caldo che ci avvolge e ci fa sentire al sicuro. La batteria procede tranquilla, accompagnando l’overture, senza distrarre troppo dai dialoghi armonici. Poi a metà del brano, una chitarra sporca e fa il suo ingresso come un lampo a ciel sereno, lasciandoci apprezzare tutte le vibrazioni calde rese ancora più intense dal gioco di ritmica e armonia.

I Cornea ci ricordano a tratti alcune tra le band più famose del genere, come God is An Astronaut, Mogwai, A perfet Circle, ma si lanciano a volte in sonorità più pesanti e affini a generi come il Doom o lo Stoner Rock e rievocano band come Sleep o Black Sabbath.

2 – Kingdom – Ecco che qui abiamo subito un assaggio di quelle sonorità pesanti e tipiche del Doom appena citate. L’intro del brano non lascia spazio a dubbi con la sua chitarrona spaziale che ci investe con un suono mastodontico e pesante. Subito dopo però abbiamo un cambio di registro e il pezzo prende una piega quasi cyberpunk, con trame sonore futuristiche e adrenaliniche.

Il brano quindi torna a riproporre le sonorità dure e spigolose dell’inizio, alternando un gioco di pulito/distorto e lasciando molto spazio al basso, che rimane molto azzeccato soprattutto nelle parti più pulite.

3 – Will You Heart Grow Fonder? Il brano apre con sonorità piuttosto pulite ma al tempo stesso estremamente scure, lasciandoci pensare a una grotta immersa nella notte, a mostri selvaggi e pesanti che si muovono nell’oscurità e nel mistero. Il brano prende un ritmo quasi ballabile e ci fa muovere la testa avanti e indietro. Il batterista si destreggia alla grande e sa quando iniziare a dare gas, portando il brano ad un livello superiore. a 4:12 riparte il motore alla grande, con una sequenza interessante, portata avanti con un incredibile intreccio di chitarre, basso e percussioni.

Ci sono band che abusano talvolta dei synth credendo di dare così l’impressione di maestosità tipico del genere. Non è questo il caso dei Cornea, che mantengono sempre in primo piano la vera protagonista di ogni canzone, e cioè l’armonia. Sono sinceri, trasparenti, e questo ci piace immensamente.

4 – Saltwater – Dopo averci deliziato con un brano pesante e imponente, i Cornea decidono di regalarci un brano dall’apertura morbida e cristallina, piena di luci e colori soffusi, come Saltwater. Gli arpeggi di chitarra si mischiano con effetti synth e vengono colorati dalle calde note di basso. La batteria mantiene il gioco sostenendo la densità sonora, senza sforzare, senza premere troppo, ma lasciando al brano il tempo di svilupparsi e di penetrare a fondo nell’orecchio dell’ascoltatore. a 3:34 il cambio, ritmi più regolari e ritmati, ci fanno pensare a un cambio d’atmosfera, a un evento in fase di cambiamento. Sul finire del brano ci viene riproposta un’esplosione di colori e suoni, con l’inconfondibile chitarra distorta degli altri brani, che lega insieme i passaggi più importanti di questo percorso.

5 – Sentinels of another Sky – Il brano è iniziato ma ci sembra quasi che l’album non abbia dei momenti definiti. Ci piace ascoltarlo quasi senza guardare il numero della traccia, tanto ci piace il gioco di immagini che si susseguono. Ogni brano però ha il suo carattere, e ce lo dimostrano anche con questo penultimo brano, dal sapore Doom, ma con immancabili tratti sperimentali degni del Postrock che tanto amiamo.

Se vi piacciono i God is An Astronaut sicuramente troverete interessante questo brano, che ripercorre alcune delle loro sonorità, dandoci per qualcosa in più su cui immergere le nostre orecchie.

6 – Diver. I Cornea non potevano scegliere  un titolo più azzeccato per descrivere questo momento conclusivo. Siamo in fase di chiusura, e ci immergiamo ancora una volta nei nostri sogni, cullati dagli arpeggi e dalle vibrazioni che riempiono l’etere. La chitarra qui sembra quasi cantare una litania antica, di cui ormai nessuno rimembra più le parole, ma che esprime la sua tristezza e la sua profondità attraverso il suono stesso delle sue corde. E quindi arriviamo al finale, potente, possente come non mai, assalendoci con uno tsunami di colpi e suoni distorti. In mezzo a questo mare sonoro, sentiamo ancora quel canto disperato, laggiù sul fondo dell’oceano.

I Cornea hanno saputo regalarci un momento di assoluto piacere e speriamo di risentirli al più presto in un nuovo album che saremo sicuramente felici di recensire! Chissà quando li potremo vedere live… speriamo presto! Forza ragazzi, andate avanti così!

Voto: 9

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Paul – Postrock.it

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DID A QUID – JOY DISMISSION

DID A QUID

Joy Dismission
Rock, Psichedelia e un pizzico di Post-Rock. Questo è Did a Quid. Questo è Joy Dismission.

Un percorso interessante quello dei Did a Quid, band campana che (come si intuisce dal nome dell’album) si pone l’obiettivo di rivisitare brani classici derivanti dal rock anni ’70 in chiave psichedelica (con un occhio di riguardo al postrock).

Un album ampio, che ci propone ben 20 brani per un totale di 1h e 32 minuti di psichedelia rock. Canzoni suonate egregiamente, che dimostrano al 100% la validità di questa band nostrana.

Non c’è che dire, fin dal primo brano la band si rivela interessante, degna di nota, con arrangiamenti curati e un suono originale. La chitarra ci ricorda un pò le sonorità Rock classiche dei primi anni ’70, un pò alla Doors, e la batteria ci conferma lo stile un pò retrò, con un suono panoramico e ritmiche serrate. Il basso si muove languido e sinuoso nelle sue scale e la voce ci accompagna lungo la strada.

La psichedelia c’è, il Rock pure, la voce non è niente male. Lo stile caldo e vintage dei brani ci avvolge e ci fa ripensare a uno dei periodi più belli della storia della musica contemporanea.

Recensire un album di tale vastità è sicuramente un compito arduo, quindi preferiamo dedicare qualche parola in più sugli elementi postrock presenti all’interno del disco.

Alcuni brani presentano scelte stilistiche sperimentali e originali, una fra tutte Heart and Soul, un brano che inizia con il suono di un cuore pulsante, che lentamente lascia spazio a pattern di Drum e suoni elettronici dal tipico sapore psychedelic Rock.

I Brani alternano parti classiche (per struttura e intenzione) a momenti strumentali, in cui la sperimentazione si fa sentire e gioca un ruolo chiave nel significato stesso di questo disco.

Ci piace l’idea del disco, ci piace la sonorità e l’ambiente caldo e ospitale in cui l’ascoltatore si può immergere.

Chiudiamo gli occhi per un momento, e ci immaginiamo un Giradischi, pochi amici intimi, un bicchiere di vino e un cielo stellato.

Nel complesso un lavoro interessante. Forse i Did a Quid hanno preso una direzione, ma a tratti questo percorso è incerto: Band Psichedelica Rock o Progetto innovativo Post Rock? Il confine e labile e noi pensiamo che la band possa maturare molto nei prossimi anni per arrivare a prendere una decisione e una direzione. Potrebbero giocare un ruolo importante nello scenario sperimentale italiano, e speriamo che la loro direzione sia questa.

Una piccola critica sul numero dei brani: 20 tracce sono davvero tante, e questa scelta rischia di far disperdere l’impressione che l’ascoltatore si potrebbe fare del progetto. Come si dice spesso in questi casi… Less is more. Consigliamo ai Did a Quid di concentrarsi più sulla sperimentazione e sull’impronta del progetto che sul numero di brani.

Nel complesso: Bravi!

Voto: 6.5

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DEEZER

Paul – Postrock.it

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FRANK NEVER DIES – BEHIND THE PARADOX

Frank Never Dies

Behind The Pradox
La psichedelia diretta, quasi primordiale dei Frank Never Dies ci catapulta in un universo Cyber Punk, colmo di quell’inquietudine futuristica tipica di un romanzo di Asimov

Waiting for a new day. L’inizio di questo album si preannuncia teatrale. Un suono synth molto anni ’80 ci fa da subito drizzare le orecchie, e ci lasciamo subito catturare. Il primo brano inizia, dopo una breve intro dal carattere solenne arriva il ritmo vero e proprio, cadenzato, suonato con attenzione.

Un ambiente un pò dark, un pò Cyber Punk, con una spruzzata di Horror anni ’80, ed ecco qui i Frank Never Dies.

I tappeti sonori del synth di Simona Ferrucci vengono portati avanti per l’intero brano, senza mollare mai di intensita, e contribuiscono all’impatto sonoro creato dall’intreccio tra Chitarra, Basso e Batteria, che si muovono agilmente tra le pieghe di questo album.

Il brano esplode quindi a 2:40, aprendo in tutta la sua melodiosa maestosità un brano dalle mille sfaccettature. Mirko Giuseppone ci regala un assolo di chitarra si stampo romantico, che ci emoziona e ci prepara al secondo brano.

Ashes. Il ritmo dell’album non perde di intensità con questo secondo brano, che prende la rincorsa e si lancia in un ritmo serrato di batteria, suonato egregiamente da Luca Zannini, che ci fa respirare un’aria un pò GIAA. Ci piace l’idea, ci piace l’intenzione. Andiamo avanti ad ascoltare, socchiudendo gli occhi per vivere un pò di questo mondo sonoro.

Ci sentiamo in un libro di Asimov, ci muoviamo per i sobborghi di una città in rovina, tra androidi e esseri umanoidi.

Il brano si ferma per un attimo di riflessione, note di basso si diffondono tristi e malinconiche nell’aria. Maurizio Troia riesce a trasmetterci sensazioni chiare e intense, che noi respiriamo e facciamo nostre. Il brano riprende l’intensità iniziale, per concludere con una serie di pattern sonori di gusto raffinato e dosati con cura.

No signal. Questo brano ci fa respirare una trama postrock con qualche rimando a quel rock psichedelico Floydiano, fatto di assoli e tappeti synth che abbiamo imparato ad amare moltissimo.

Le percussioni si lanciano in una corsa tribale, la chitarra la segue in modo serrato, senza lasciare respiro.

Poi un attimo di riflessione, le chitarre si abbassano.. il synth rimane presente in sottofondo, come una nebbia densa che tutto permane. Il basso ci accoglie in questo nuovo capitolo con note arpeggiate. Da qui un climax che aumenta fino ad esplodere con un assolo degno di questo brano.

Reborn. Anche in questo brano la psichedelia non manca. E le note di synth cantano accompagnate da atmosfere attentamente studiate per dare a noi ascoltatori sensazioni multiple, contrastanti, che si alternano: malinconia, speranza, inquietudine, amore.

Clubber Lang. I Frank Never Dies dimostrano di avere un suono maturo, studiato e ci regalano un album molto interessante, con un’atmosfera chiara e trasparente che si avverte per tutto il percorso sonoro. Questo brano parla la stessa lingua. Gli effetti Synth si susseguono, mai scontati, e la chitarra riesce a dare sostegno in modo incredibile grazie ad un gioco di arpeggiati ed effetti digitali. Le ritmiche fanno da padrone in questo quinto brano.

The compleat traveller in black.

Immagina un viaggio senza fine, in un mondo futuristico di cui ha perso ogni punto di riferimento. Sai chi sei, ma non sai dove ti trovi, non sai se sei al sicuro oppure se sei in pericolo..

Ecco l’aria che respiriamo in questo penultimo brano. Grazie ai meravigliosi effetti sonori e a momenti di basso e chitarra intensi e chiari, arriviamo alla fine di questo brano con la voglia di risentirlo dal principio.

Meet Again. Forse un messaggio di speranza, l’intenzione di rivederci presto dopo la pandemia che dilaga su questo pianeta, o la promessa di rivedere presto i nostri bravissimi Frank Never Dies tra le recensioni del nostro sito Postrock.it  , ed ecco che l’ultimo brano fa capolino su questo stereo. È stato un viaggio piacevole, romantico, e ci dispiace quasi che sia già giunta la fine.

Ascoltiamo questo brano e facciamo tanti complimenti a tutta la band, che entra a far parte sicuramente delle band più promettenti del panorama italiano Post Rock di questo 2020.

Chissà che cosa ci riserveranno i nostri ragazzi per il futuro. Attendiamo con ansia, e speriamo di vederli presto…dal vivo magari!

VOTO: 8

 
Membri

Guitar – Mirko Giuseppone

Synth & Guitar – Simona Ferrucci

Bass – Maurizio Troia

Drums – Luca Zannini

 
Etichetta discografica
BloodRock Records
 
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Paul – Postrock.it

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CLAUDIO MELCHIOR – SCHIVARE LA PIOGGIA

Claudio Melchior
SCHIVARE LA PIOGGIA

Claudio Melchior ci lascia così vagare in un pensiero che spesso tentiamo di evitare, a cui spesso cerchiamo di non pensare. Il senso della vita. Non c’è evoluzione, non c’è esplosione semplicemente perché non abbiamo risposta.

 

Sintetizzatori in forte contrasto con un suono orchestrale di archi, ecco l’inizio di “Schivare la pioggia”. La voce dal timbro cantautorale, effettata da un leggero eco, si introduce già nel primo minuto. Il ritmo dal sound che si mimetizza nell’elettronica incalza sempre di più, a passo con la ritmica vocale. La tendenza pop è molto forte, ma rende l’ascolto più orecchiabile. E’ molto più semplice, così, concentrarsi sul testo. 

Rimaniamo con il fiato sospeso in attesa di un ritornello che non arriva, una fuga di parole, una fuga di suono alla ricerca di un’esplosione vera e propria che comunque riusciamo ad ottenere nel finale.

Il fumo sale piano dalle ciminiere, dalle gole nere, dalle tentazioni nere. 

Il tutto per non scendere a patti col tempo che ha già deciso di farci del male. Questo dice il testo e ci appare più chiaro il senso del titolo. 

Come possiamo schivare la pioggia? La vita è un respiro, un lampione dopo l’altro. La morte muore, rinasce il giorno e così la vita che prosegue. 

Non possiamo schivare la pioggia, non possiamo schivare il dolore, non possiamo schivare nulla di quel che ci aspetta, è il semplice cerchio della vita. 


Claudio Melchior ci lascia così vagare in un pensiero che spesso tentiamo di evitare, a cui spesso cerchiamo di non pensare. Il senso della vita. Non c’è evoluzione, non c’è esplosione semplicemente perché non abbiamo risposta.

VOTO: 8

 

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https://www.facebook.com/claudio.melchior.music

 

J. Postrock

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NITRITONO – EREMO

NITRITONO

EREMO
L’album “Eremo” inizia con dei suoni che ci immergono nell’apice del noise, fino all’ingresso della batteria. Un sottofondo di voluto rumore permane per tutto il tempo, corde che stridono, suoni che tremano e noi che tremiamo con loro. 

Un ripetitivo sound ansiogeno ci accompagna fino al minuto 2:49 circa, sembra che stia per esplodere qualcosa ed in effetti così è, non musicalmente ma ritmicamente. Entra qui una voce lontana, volutamente d’effetto, calda. Riparte un sound più aggressivo ma ancora ripetitivo, estenuante, ci confonde la mente.

Parte così “Samos”, dopo la baraonda finale del brano precedente: apparentemente più sobrio, introspettivo l’inizio.

Lento, cadenzato, un ritmo quasi visivo. Avanguardistica l’intenzione. La batteria anche qui fa da maestro, da indicatore. 

La chitarra la segue fedelmente in uno strumentale che sfocia nello psichedelico a tratti. Una conclusione sospesa che ci lancia nel brano successivo. Ci catapulta come se entrassimo in un varco spazio-temoporale.

E parte così “Passo di Terre Nere”. Un ingresso deciso, ci sentiamo dispersi in un territorio sconosciuto. Come se appunto, entrando in una nuova dimensione, ci ritrovassimo immersi in un mondo pericoloso, o comunque poco famigliare. Ci viene voglia di esplorare, guardarci attorno ma anche correre, fuggire, cercare un luogo sicuro. La calma apparente arriva al minuto 2:13. La chitarra ci annuncia che possiamo respirare un po’. La folle corsa sembra terminata, forse. Introspettivo, espressionista il taglio oscuro che riparte dal minuto 2:45.

Giochi di luci e ombre, forme sfuocate, vacue, contorni sbiaditi di personaggi neri come delle silhouette.

Ci chiediamo dove siamo e dove potremmo finire ancora, in questo viaggio assurdo e ansiogeno. Riparte la corda al minuto 4:20, questo mondo è davvero incomprensibile. Un grido anche questa volta di una voce in lontanaza, un eco si dissolve questa volta nelle nostre orecchie insieme al ritmo incalzante, tutto trema. Un terremoto di suono che rimbomba in una valle isolata.

Aborigeno l’intro di “Hospitales”, percussioni comandano nuovamente il brano, aumentano e rallentano la propria intenzione ritmica, uno squillo ci avvisa che sta arrivando dell’altro. Siamo pronti, all’erta al pericolo di una natura che ci affascina ma ci terrorizza. Guardinghi attendiamo la tigre pronta ad aggredirci ma non arriva. Un arpeggio di chitarra dolce ci tranquillizza per un po’.

Aspetto importante che ci assicura che il duo di Cuneo oltre alla fermezza del suono chiaro, possiede una dolcezza interiore che esprime al momento opportuno.

Una dolcezza che la natura incontaminata ci sa donare, quando vuole. L’esplosione riparte al minuto 3:45 dopo un fischio d’avvertenza.

“Bric Costa Rossa” ci dona la conferma di questo aspetto di una natura selvaggia quanto pacifica. In grado di darci quello di cui abbiamo bisogno, ma quando è lei a deciderlo. Non ci sono pretese.

La collaborazione con Petrolio ha dato vita all’ultimo brano “Cosa da Morte”. Un brano completo che rispecchia il genere, un brano che racchiude il senso di tutti gli altri. Noise, rumori che si trasformano in suoni e viceversa. Batteria che non guarda in faccia nessuno, va dritta come un treno in ogni suo movimento, protagonista indiscussa delle direttive del suono. La chitarra spesso tende allo psichedelico, riff ipnotizzanti, mantra che si ripetono incessanti.

Un album ha bisogno di forza, di grinta, anche di suoni grezzi… ma ha anche bisogno della calma che la Natura, musa ispiratrice del tutto, vuole donare a questo mondo.

I Nitritono riescono benissimo nell’intento, lanciandosi in un sentiero introspettivo ma anche emozionale degno di essere recensito positivamente.

VOTO: 8

 

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J. – Postrock

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NORTHWAY – THE HOVERING

NORTHWAY

THE HOVERING
Una copertina che non poteva essere più azzeccata per una traversata oceanica sonora densa di emozioni e di contrasti, di armonie e di dissonanze. Ecco a voi il secondo album dei Northway – The Hovering.

Sarà il freddo di questo Dicembre, sarà il periodo, sarà il momento storico, ma non potevo trovare una band migliore da recensire in questo periodo pre-natalizio.

Loro sono i Northway, band attiva dal 2014, e ci deliziano con questo secondo album davvero degno di nota. 

Ci addentriamo subito, senza troppi giri di parole, nel percorso musicale di questo interessante disco, uscito il 25 Settembre 2020.

Il disco richiama fin da subito un’atmosfera particolare, guardando la copertina ci sembra quasi di sfogliare le prime pagine di un romanzo inglese di fine ‘800, quelle storie a metà tra mito e scienza, tra tecnologia e mitologia, e i titoli confermano la nostra sensazione iniziale. 

Point Nemo, partiamo subito con un basso sporco, diretto, che senza troppi giri di parole ci introduce al primo brano, incalzando la batteria che segue poco dopo e aprendo un capolavoro di trame armoniche di chitarra che ci regalano un’immagine davvero intensa, davvero sognante.

Scaturiscono immagini in sequenza nella mente dell’ascoltatore, che influenzato dalla copertina e dal titolo del brano si ritrova subito nella ciurma del Nautilus, viaggiando a profondità incredibili, osservando cose fino ad ora nascoste ad occhio umano.

La batteria è sommessa, tranquilla, ci accompagna nel viaggio senza troppe parole. Ma ecco che sul finire un mostro marino passa in tutta la sua enorme imponenza davanti ai nostri occhi, e assistiamo ad un esplosione di suoni e di colori

Kraken. un urlo sorge dalle profondità. Una lingua a noi sconosciuta. Nella notte dell’oceano, a bordo del nostro veliero, tra fulmini e pioggia, vediamo all’improvviso emergere un gigantesco tentacolo. La chitarra si erge in tutta la sua grandezza, con suoni scuri e pesanti, spinta in avanti da un basso che dipinge perfettamente l’imponenza del grande mostro marino.

La batteria scandisce gli attimi di terrore come se procedessero quasi a rallentatore, con quella sorta di adrenalina che ci pervade alla vista della mitologica creatura.

La chitarra si lancia in suoni che sembrano quasi urla, poi un arpeggiato a metà del brano, una riflessione quasi, che ci riporta alla ricerca di un qualcosa, un miraggio, una leggenda. Il rullante riprende la sua marcia, i fucili sono in posizione sul ponte, il mozzo ha avvistato qualcosa, ci apprestiamo alla battaglia. Ed ecco che la chitarra riemerge, ancora più cattiva, per il secondo mitico confronto tra uomo e leggenda. 

Hope in the Storm. Un bellissimo gioco tra arpeggiati di basso elettrico, chitarra synth e accordi di immensa delicatezza.

Siamo in sottocoperta, fuori imperversa la tempesta. Sentiamo il legno del Veliero scricchiolare sotto le sferzate del gelido vento, i lampi irrompono con il loro boato, ma tutto rimane quasi lontano da noi.

Mentre la nave oscilla, noi siamo alla nostra scrivania, e con penna d’oca e inchiostro scriviamo una lettera alla nostra amata, rischiarati dalla luce di una debole e oscillante lanterna. La nostra mente è lontana da tutto questo, siamo nei ricordi. L’intensità del brano aumenta e noi ci immergiamo nei pensieri di speranza. La nostra avventura non può terminare qui, abbiamo qualcuno che ci aspetta a casa. Dobbiamo tornare.

Interlude. Così come il nome del brano, questo potrebbe essere un tramite verso ciò che ci aspetta. Nella mia mente vedo un momento di stasi durante il viaggio. Interessanti effetti sonori si succedono uno dopo l’altro, riempiendo l’aria. Forse stiamo cercando qualcosa che ancora non abbiamo trovato. Tra le onde senza fine, buttiamo in mare i corpi dei marinai. Loro non ce l’hanno fatta, ma noi si.

Edinburgh of the Seven Seas. Una calda armonia, accompagnata da un basso e una batteria suonati con ritmo e grazia, ci accompagnano lungo questo quinto brano. Siamo arrivato al porto, vediamo la città con i suoi comignoli sbuffanti, e i carri trainati dai cavalli carichi di spezie e merci che attendono di essere trasportate lungo il vasto mare.

Ci immergiamo nella città, nei sobborghi, ascoltiamo i vecchi marinai mentre narrano di epiche battaglie, mentre ricordano a tutti di quella volta che la grande balena bianca distrusse la nave e uccise tutti.

Anche qui assistiamo ad un giustissimo aumento di intensità, con un assolo di chitarra che prende parola per raccontarci qualcosa di cui nessuno più ha ricordo, un suono che pare voce, un pianto. Note di piano accentuano la malinconia di questo brano, portandolo verso la sua fine.

Deep Blue. Dopo una vita passata solcando i sette mari, ci pare di aver percorso soltanto un’infinitesima parte di questo sconfinato mare. La chitarra, proseguendo la malinconia del precedente brano, ci introduce all’ultimo brano di quest’album.

E partiamo, immergiamoci ancora una volta in questa trama sonora così piacevole e ben fatta.

Ci lasciamo trasportare dalle ritmiche di basso e batteria, mentre solchiamo le onde di un mare languido, dolce e calmo seppure inquietante. e misterioso. Cosa c’è laggiù nell’oscurità? I nostri antenati ci hanno lasciato in eredità leggende e miti, parole e canti che non hanno più un volto ormai…ma se in qualche modo fosse vero? Se quelle leggende avessero un’origine, se in questo momento qualche gigantesca creatura stesse ancora animando i fondali sconfinati dell’oceano sotto di noi?

È questo il quesito con cui i Northway decidono di chiudere il loro capolavoro, narrandoci storie, leggende, canti e poemi con un epilogo degno di questo viaggio leggendario.

Chitarre sognanti viaggiano a ritmo di batteria, mentre il basso vola alto dando la vibrazione adatta per un momento cosi solenne.

E così si chiude quest’album, che. ci ha regalato emozioni che vanno aldilà delle parole. Bravi Northway, cosa ci racconterete nel prossimo album? aspettiamo con ansia e curiosità il vostro prossimo lavoro.

Voto: 9

Line-up:

Antonio Tolomeo (chitarra)

Luca Laboccetta (chitarra)

Matteo Locatelli (basso)

Andrea Rodari (batteria)

LINK:

https://www.facebook.com/northwaytheband

 

Paul – Postrock.it

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IL SILENZIO DELLE VERGINI – FIORI RECISI

IL SILENZIO
DELLE VERGINI
FIORI RECISI
“Il Silenzio delle vergini” sono una meravigliosa scoperta. Con loro ho rivisto memorie, ricordi, gioie e dolori. Tutte quelle emozioni che fanno parte di un viaggio obbligato per tutti noi, la vita. Può lunga o più corta, non ha importanza, conta come viene vissuta.

“Non ho più paura” apre con un arpeggio ed un dialogo. Ci figuriamoci già un campo – contro campo davanti agli occhi, come se fossimo al cinema. La voce acconsente ad un ipotetico rapporto di non fedeltà da parte della donna, e lì il ritmo prende vita nell’arpeggio iniziale, una voce femminile, angelica, appoggia il tema melodioso, venature pop che rendono il tutto estremamente orecchiabile. La voce over rientra in campo, una dichiarazione d’amore che lascia in qualche modo presagire un finale tragico, come un melodramma amoroso degli anni 30 sugli schermi di Hollywood.

“Cuore di farfalla” entra in gioco con una chitarra distorta, si sente il passaggio delle dita sul manico. Questo è un altro film, un altro dialogo. La vena romantica si percepisce già dalla seconda canzone. Un arpeggiatore evidenzia il ritmo, le voci lontane, come degli eco dall’aldilà, lasciano spazio ad un mormorio di sottofondo, un vociare caotico che ci fa tendere le orecchie con insistenza. 

Questo brano ci riporta nel passato, nelle antiche memorie di un’infanzia. Il ricordo, la memoria, la fuga… ricorrenti temi nel settore avanguardistico. 

Siamo pronti a farci trasportare da ogni emozione, da ogni singola nota.
“Mental Code” sembra spezzare lo stile romantico dei primi due brani. Dopo il ricordo, dopo le memorie, il tema ricorrente in ogni film d’avanguardia che si rispetti è quello della fuga. E l’impatto sonoro è proprio quello, una corsa inesorabile, echi e cori si mescolano in un assaggio caotico ma anche conflittuale. 

Ancoraggio alla tradizione, alle memorie, ed allo stesso tempo la voglia di esplorare. Sonorità più scure, non propriamente espressioniste ma di sapore comunque nordeuropeo.

“Radici di Paradiso” utilizza nel titolo un altro termine che sostituisce la “tradizione”, ossia le radici. “Amore o morte”. “Voglio amare o morte”. La voce di Mathilda del film Leòn ci dona la conferma che pensare ad un film non è probabilmente così soggettivo. Nuovamente le coralità femminili portano la mente in un vero e proprio aldilà, Paradiso o Inferno non ci è dato saperlo finchè siamo in vita. Il tratto nostalgico dei synth ed arpeggiatori sono un ritorno alla vena romantica del principio. Un amore folle, forse distorto, forse destinato a finire male. Del resto, nel realismo poetico nella Francia degli anni 30, ci si dedicava ad amori idealizzati. 

Non importa cosa o chi, basta amare, mettendoci tutta l’anima.

“Necessità” riprende un po’ le ritmiche sensoriali di “Mental Code”, genera la forte incertezza in un ambiente romantico, rimanendo comunque molto orecchiabili, perfetti per accompagnare un video, una ripresa, un film. Ritorna, a sensazione, il tema della fuga, aggravato dai cori lontani, fuori campo, tratto oramai distintivo dell’album. Ripetitivo, incalzante, il ritmo ed il riff principale rimangono nella mente portando alla paranoia.

Cupo l’inizio di “Cenere”, suoni elettronici integrati con abilità indiscussa. Ashes to ashes and dust to dust, direbbero i Candlemass. La drammatica poesia di Edgar Lee Masters viene recitata come unico testo che possiamo riconoscere come tale in tutto l’album, fuori dai dialoghi iniziali. Non c’è risposta, è un soliloquio, sentito. Emozionante, una dote attoriale che enfatizza il messaggio, arrivato dritto al cuore.

“Gambino” mantiene per tutto il brano una certa sensazione di velata inquietudine, anche questa può far parte di un panorama romantico. La scelta dei suoni, l’accostamento ritmico, ricorda vagamente una citazione dubstep/elettronica, una sperimentazione elettronica che trasmette una sensazione ansiogena.

“Fiori recisi” è il monologo di una notizia di cronaca nei panni della vittima, la musica accompagna lo sfogo di lei, bullizzata dopo essere stata ripresa con un cellulare mentre dei ragazzi fingono di avere un rapporto sessuale con lei. “Come si può essere così cattivi” dice la sua voce, se lo domanda diverse volte, poi la musica parte incalzante. Sì, si può essere così cattivi, si può essere anche più cattivi. Purtroppo.

E la sua voce si confonde con suoni e rumori, interferenze… poi il silenzio. Si può essere così cattivi.

Ultimo brano dell’album è “Il treno dei desideri”. Il pianoforte che fa il suo ingresso ad inizio brano ci lascia subito con l’amaro in bocca: sensazione di nostalgia, di malinconia, di ritorno a casa dopo la fuga, forse? Il treno non è forse l’immagine tipica del fuggire?

Il treno trasporta sogni, speranze. Giovinezza, voglia di scoprire… un nuovo viaggio sta arrivando. 

E noi siamo pronti per partire, senza dimenticare quelle che sono le nostre tradizioni, le nostre radici, le nostre memorie…?

“Il Silenzio delle vergini” sono una meravigliosa scoperta. Con loro ho rivisto memorie, ricordi, gioie e dolori. Tutte quelle emozioni che fanno parte di un viaggio obbligato per tutti noi, la vita. Può lunga o più corta, non ha importanza, conta come viene vissuta.

E sono ancora su questo treno, adesso. E non ho nessuna voglia di scendere.

 

J. – Postrock

 

VOTO: 9,5

CONTATTI:
https://www.facebook.com/ilsilenziodellevergini/

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Nova sui prati notturni – Nova sui prati notturni

Nova sui prati
notturni
Nova sui prati notturni
Nova sui prati notturni – questo il titolo dell’album, un viaggio attraverso suoni, parole ed emozioni, in quello che sicuramente è uno dei più bei dischi postrock italiani di questo 2020.

Siamo in dirittura d’arrivo, verso la fine di quest’anno tremendo che molti di noi sperano di dimenticare presto. Ci sono state ben poche cose positive di quest’anno che voglio ricordare, e sicuramente una di queste è l’album Nova sui prati notturni.

Giulio Pastorello: chitarre, voce, testi (ma anche registrazione e missaggio). Gianfranco Trappolin: percussioni (ma anche realizzazione copertina e blog). Massimo Fontana: chitarra elettrica, voce, testi. Federica Gonzato (basso, pianoforte, testi, voce). 

Questa la formazione dei nostri Argonauti che si adoperano in questo viaggio sonoro, denso di immagini, ricordi e vibrazioni.

Quest’album mi ha colpito subito per la maturità sonora che questa band ha saputo racchiudere in sole dieci canzoni.

Una Notte. L’album inizia placidamente, e subito veniamo accolti da un basso caldo e morbido che ci avvolge con la sua placida malinconia. La chitarra batte leggera dei piccoli rintocchi che scandiscono e accompagnano le percussioni. In questa canzone non ci sono protagonisti, o forse lo sono tutti. Questi sono i paradossi che i Nova sui prati notturni riescono a creare con la loro musica magica.

Parole scandite con ordine, chiare seppur così nebulose, si perdono in immagini di attrazione e tradimento… noi seguiamo il susseguirsi di queste diapositive, di questi ricordi senza nome.

Dal deserto. Si respira una psichedelia quasi Doorsiana, La batteria dirige fin da subito la direzione della canzone, scandendone le parole e regalandoci una dolce atmosfera psichedelica. La chitarra leggermente distorta si disperde nell’oceano delle immagini che questa canzone suscita nell’ascoltatore.

Mi lascio travolgere, mi sento inerme, ascolto e chiudo gli occhi, respiro le parole di questa canzone, immagino di sdraiarmi in riva al mare, mi lascio accarezzare dalle onde.

Studio e Famiglia. Un sussurato gioco di strumenti che si accompagnano a vicenda, producendo un tessuto che si autoalimenta. Inizio e fine corrono sulla stessa sottile linea.

Nervi e sangue. Una favola nordica raccontata in calde parole di poesia, in un’atmosfera a dir poco sognante. Chitarre morbide e quasi luccicanti, effetti ambient interessanti. A coronare questa canzone, delle percussioni suonate magistralmente rendono questa piccola traccia qualcosa di più di una semplice canzone.

A casa. Il tono cambia radicalmente, al suono caldo e decisamente coeso dell’album si aggiunge un dialogo più dinamico, un passo più ritmato. Parole se vogliamo più forti queste, che invitano a riflettere.

Chiudo gli occhi e vedo un padre che tenta di salvare una figlia dalla depressione, o un marito che con cura trasmette parole alla propria moglie per alleviare le sue sofferenze e le sue malinconie.

La chitarra emerge durante il pezzo con un suono leggermente distorto, ad intesificare un testo che già di per sè lascia il suo segno.

Oggi 2020. Un sogno o realtà? La voce narrante ci descrive immagini che sembrano avere contorni sfumati, lampi di luce che si trasformano in colori e suoni. Un rullante cavalcante scandisce il susseguirsi di queste immagini così vive da sembrare un sogno lucido. Gente, fiori, dialoghi e simbolismo.

Stella. Il titolo fa parte del significato intrinseco di questo brano, da assaporare nei suoni e nelle parole. Cos’è una stella, se non un punto luminoso unico seppur unito nella volta celeste? E così ci sono molte persone che non capiscono la propria unicità e quella degli altri, e proviamo dolore. Ecco che in questo brano fa capolino una chitarra acustica, e ci sembra quasi di ascoltare questo brano in riva al mare, in una notte qualunque di questo inverno senza tempo.

Guardiamo il cielo, limpido e stellato, e comprendiamo, sentiamo che molte persone non hanno occhi per vedere.

Nokinà. Straziante e potente brano che segna una profonda cicatrice nella storia umana. Un termine coniato a ricordo della tragedia degli ebrei e dei campi di concentramento. Le mamme camminano verso le camere a gas, con i propri bambini in braccio, sussurrando “ninàa, ninàa”. Non si può rimanere impassibili di fronte a questo brano, non si può fare a meno di vedersi proiettati in questa orribile scena, con tutta la sua malvagia intensità.

Vedo queste madri, con passo lento e inesorabile, che camminano verso la morte, raccogliendo ogni piccola parte del proprio coraggio per dare sicurezza, con un piccolo canto, ai propri figli, e preservare la loro ingenuità.

Voci che si susseguono, si disperdono, un bambino che muore sentendo la voce della propria madre cantare verso l’infinito, respirando il gas micidiale, chiudendo gli occhi per l’ultima volta.

AmT. Siamo agli albori della tecnologia. Questa storia ci racconta un sogno, il sogno dell’uomo che vuol farsi macchina, e si lancia così nel viaggio alla scoperta delle proprie potenzialità. Invenzioni, composti chimici, microcompuetr, transistor, algoritmi matematici, numeri, note, tutto si forma come su una lavagna di un’aula universitaria. Un misterioso professore, con barba e capelli bianchi, traccia con il proprio gesso delle linee e ci preannuncia il futuro dell’umanità. E noi assistiamo, eccitati alla visione di quello che ci aspetta. Vediamo tutto da un punto di vista più ampio. Capiamo come ogni cosa ha il suo senso. i suoni dei piatti si dispersono a formare un danzante rumore di fondo che ci ricorda quasi il rumore bianco della radio, e chiudendo gli occhi ancora una volta, rivediamo immagini e volti di uomini alla spericolata scoperta della tecnologia, con coraggio e una piccola dose di follia.

Il Mantello. Conosco questo racconto di Buzzati e ne sono molto affezionato, e quindi non posso che rimanere estasiato dalla splendida messa in musica di questo racconto, tra i più belli forse di tutta la carriera del grande scrittore esistenzialista italiano. Un uomo torna a casa dopo la guerra. Rimane a casa per poco, non toglie mai il mantello, ci lascia capire che quello non è altro che il fantasma dell’uomo, giunto per dare un ultimo saluto ai propri cari.

I Nova sui Prati Notturni sono un passo obbligato per tutti gli amanti della musica Post Rock. Aspetto con molta curiosità i loro prossimi lavori, e spero di vederli presto live, una volta che tutta questa dannata Pandemia sarà passata.

VOTO: 9

LINK:

https://novasuipratinottur.wixsite.com/nspn

FACEBOOK:

https://www.facebook.com/novasuipratinotturni

Etichetta: Dischi Obliqui

 

 

 

Paul – Postrock.it