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ANDREA PELLICONE VAN GOGH PROJECT – “SOMETHING YOU SHOULD KNOW”

ANDREA PELLICONE VAN
GOGH PROJECT
“SOMETHING YOU SHOULD KNOW”
Andrea Pellicone Van Gogh Project – Something You Should Know – Le emozioni, le sensazioni, l’arte uditiva si unisce all’arte pittorica. E’ il messaggio quello che conta, quello che ci è arrivato dritto al cuore, un puro gesto d’amore.

“My sea is screaming” inizia con sensazioni, rumori, ritmi in una mescolanza di suoni dal sapore d’avanguardia. L’autore dedica queste forti emozioni al crollo del ponte Morandi di Genova, 14 agosto 2018, ma potrebbe tranquillamente essere riferito a situazioni analoghe. Ci sentiamo come se un pensiero stesse per invadere completamente la nostra mente fin quasi a farla esplodere. 

Una musicalità che potrebbe tranquillamente accompagnare una pittura in movimento.

Dobbiamo attendere quasi il secondo minuto per sentire un dialogo di chitarre, un dialogo frenetico e sperimentale, quasi come se lo strumento fosse stato suonato in maniera diversa dal modo consueto che tutti conosciamo. Una cavalcata, una batteria impazzita, un suono che non trova pace, che corre, scappa frenetico, alla ricerca della sua dimensione. D’improvviso una voce over ci riporta con i piedi per terra, quella corsa probabilmente è reale, è un urlo. Sta succedendo qualcosa e sta succedendo per davvero…

Le nostre prime impressioni ci portano quindi tormentati all’ascolto di “A summer joke”. Siamo in preda ad un forte temporale. 

Il tocco psichedelico si sente nell’esecuzione delle chitarre, nel modo in cui la batteria tenta di rincorrerla affannosamente.

Lo scherzo del destino, già, così crudo e amaro, che fa le cose quando non ce lo aspettiamo. Come in una semplice giornata estiva seppur piovosa. Nell’ultimo minuto gli strumenti sono completamente dislocati tra di loro, come se non si seguissero più. Come se ognuno avesse trovato una propria dimensione ma non la stessa degli altri.

Passiamo così a “Romantic Dream”, un piano introduce qualcosa di estremamente toccante, un’aspettativa corretta se si pensa al rifacimento di una grande opera come l’Ave Maria di Shubert. 

Il tema portante è eseguito dalla chitarra elettrica, grattato, forse impreciso, ma il messaggio arriva dritto al cuore. 

Un saluto alle vittime che si è infilato in noi come una lama appuntita. La canzone, che dura per 15 minuti, è divisa in quattro parti ed oltre all’ispirazione Shubertiana ritroviamo anche il tema di Danse Macabre di Camille Saint Seans. Sicuramente il tema dell’occulto è apprezzato e non fuori luogo in questo concept album.

“Dirty Money” lancia un messaggio neanche troppo subliminale su quello che i soldi significano in ogni situazione. Il loro macabro ed oscuro potere che avvolge tutti sempre e comunque, anche nella disgrazia. Lo stile cadenzato dell’inizio del brano lasciano quasi un’idea di rassegnazione a di fronte a questo concetto. Lo stampo cantautorale un po’ “country” anche nel testo, rafforzano questa idea.

“Rising to light” è dedicata alle anime che, ancora spaesate dall’accaduto, fluttuano in cielo. Il suono iniziale ci dona l’idea del tormento, forse del non voler lasciare una vita che gli è stata strappata così presto. 

Schizzi di musicalità agguerrita lasciano tregua ad una voce che sovrasta il leggero accompagnamento, proprio per dare priorità all’ascolto del testo, anche questa volta in inglese.

Inizia subito dopo “Song for Caterina”, il rumore del vento e del mare ci accompagnano in tutto il concept e lo rendono davvero tale. Nuovamente ritroviamo un pianoforte che fa un semplice accompagnamento. Il testo ci avvolge in quella che comprendiamo essere subito una canzone d’amore e come tale ci mostra i suoi problemi, le sue angosce, magari anche delle paranoie, reali o meno, che fanno comunque parte della vita. Un po’ come nei temi preferiti dalla pittura d’avanguardia, quando si affronta una qualsiasi relazione passando dal suono, al rumore, all’immagine. Il tutto, comunque, sempre derivato dall’inconscio, dal profondo o dall’infanzia.

“L’Infinito” parte con un accenno all’inno di Mameli, e subito dopo un decadimento sonoro… inizia la recita dell’Infinito di Leopardi. La parte vocale è una sorta di urlo, più che un canto, non si schioda da due note, ma sicuramente rende l’idea centrale di un messaggio di rinascita, un urlo ma questa volta di speranza, forse. 

Il fatto che in qualche modo riusciremo sempre a rialzarci.

“Dancing on the Clouds” regala un ultimo saluto alle vittime, questa volta non c’è segno di angoscia, di irrequietezza. Quasi si percepisce una sensazione di pace dalla musicalità, probabilmente anche per l’arpeggio che ricorda ancora vagamente Shubert, ci lascia questa malinconia però distante dalla tristezza. Un ultimo ciao e un bacio al cielo.

Seguono “Ballando sulla Luna” e “Caterina”, semplicemente la versione in lingua italiana di “Dancing on the Clouds” e “Caterina”. Sentire un tema come questo in lingua italiana, sapendo anche il messaggio generale del concept, non fa che potenziare ancora di più le impressioni descritte in questa recensione.

Le scelte di Andrea Pellicone sull’aspetto editing sono chiare: non ci sono state modifiche, il suono sembra spesso impreciso rispetto agli audio perfetti che siamo sempre abituati a sentire, tutto perfettamente a tempo, tutto perfettamente in sincrono. Qui invece ci sono alcune sbavature, alcune imprecisioni… ma cosa importa?

Le emozioni, le sensazioni, l’arte uditiva si unisce all’arte pittorica. E’ il messaggio quello che conta, quello che ci è arrivato dritto al cuore, un puro gesto d’amore.
VOTO: 7

LINK:

https://www.facebook.com/andreapelliconevangoghofficial

 

J. Postock

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BJ JAZZ GAG – SOMESTRING ELSE!

BJ JAZZ GAG

SOMESTRING ELSE!
Somestring Else! dei BJ Jazz Gag è un album d’avanguardia, un album concepito da pionieri del suono, che si lanciano alla ricerca dei confini della musica.
18-19 Maggio 2019. Il mondo vive tranquillo e ignaro di quello che da lì poco li sarebbe successo.

Non c’era pandemia, COVID era una parola ancora semi-sconosciuta ai più. Da qualche parte in Italia, 3 ragazzi entravano in sala registrazioni per dare vita a un esperimento unico nel proprio genere. Cercare i confini della musica.

All’epoca dei terrapiattisti, dei negazionisti, dei complottisti, pensavo di averne sentite davvero di tutti i colori. Ma oggi sono certo di aver scoperto un’altro genere di pazzia.

Questi 3 ragazzi sostengono che la musica non abbia limite. La musica quindi sarebbe infinita? Loro sostengono di si. È così che Biagio Marino, Luca Bernard e Massimiliano Furia decidono di provarlo in prima persona, perché non ci bastano le teorie. 

Sanno che sarà un viaggio suicida. Sanno che potrebbero non tornare. Ed è così che indossano le loro tute spaziali, inseriscono i jack negli amplificatori e si lanciano nel vuoto cosmico sonoro per scoprire con le loro stesse orecchie se questa è verità o pazzia.

Somestring Else! Si lancia in un viaggio epico alla scoperta di nuovi suoni, nuove accordature, temi fuori da ogni schema, calde melodie e intricati passaggi, alla ricerca di una risposta ad una sola domanda: la musica può avere limite? 

La loro risposta è no. Ce lo dimostrano con un album denso di tessuti sonori e dal sapore Jazz. Non fatevi ingannare dal Nome della Band, perchè qui troverete molto più che del “semplice” Jazz.

Solitamente mi piace recensire parlando delle canzoni, descrivendone i passaggi, ma in questo caso voglio uscire anch’io dagli schemi e descrivere quello che questa band mi ha trasmesso.

Ho assaporato il gusto per la melodia, in un contesto in cui la melodia non è protagonista. Le chitarre suonate divinamente da Biagio Marino ci disegnano una trama sonora che è qualcosa di più di un semplice album. Il Double Bass di Luca Bernard ci scalda l’anima, creando quel tappeto su cui si arrampica maestralmente Massimiliano Furia con le sue vertiginose percussioni.

È uno scenario, un film, una sceneggiatura, un qualcosa che prende forma davanti a noi e si muove con noi.

Sono 5 canzoni, ma vorrei che fossero di più. Questi tre ragazzi hanno un incredibile Feeling e ce lo raccontano nota per nota, mischiando sapientemente ed in modo quasi alchemico percussioni, tonalità calde e accordi per regalarci un mondo di suoni.

Qualcuno potrebbe storcere il naso, potrebbero dire “Hey, questo non è postrock” ma io me ne infischio dei puristi. D’altronde, come si fa ad essere puristi di un genere nato per uscire fuori da ogni schema, come il postrock?

Voto: 8,5

Line-up:

Biagio Marino – Guitar

Luca Bernard – Double Bass

Massimiliano Furia – Drums

LINK:

niafunken

Paul – Postrock.it

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Australasia – Mercurio • Argento

Australasia

Mercurio/Argento
Mercurio/Argento è un singolo che ci immerge in un recondito scenario dark senza uscita. 
I suoni volutamente gracchianti, a tratti sporchi, rendono percettibile la pesantezza di un losco ignoto. I suoni vintage si sposano alla perfezione con lo stile, le cupe atmosfere.

“Mercurio” è ambient tetro, distorto. Evoca temi impalpabili, misteriosi. A tratti alieni nell’ultimo minuto.

Sei minuti di attesa costante che non raggiunge un apice e ci lascia volutamente ansiosi di ascoltare in seguito.

Ci invita “Argento” ad entrare in un regno di attrazioni visive dove, con timore, facciamo il nostro ingresso in punta di piedi. Architetture vertiginose, incombono specchi su di noi, percepiamo mille e più sfaccettature nel campo uditivo e visivo. Non arriva l’apice dell’esplosione sonora, ma è un bene. Non è richiesta, avrebbe rovinato l’atmosfera, avrebbe rovinato lo stridio alieno ed allo stesso tempo primordiale che ci accompagna durante tutto l’ascolto.

La realtà diventa solo una mera percezione illusoria per l’ascoltatore. Gli Australasia prendono questa illusione, la deformano e la rielaborano attraverso un’interiorità fatta musica.

LINK:

https://www.facebook.com/australasiamusic

 

J. Postrock

 

 

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ALTARE THOTEMICO – “SELFIE ERGO SUM”

Altare
Thotemico
SELFIE ERGO SUM
Gli “Altare Thotemico” sono una musica di arte e di prova, di sperimentazione e avanguardia. D’elitè, di nicchia ma dalla voce popolare. Una voce che però va ascoltata con attenzione.
“Non il mio nome” inizia con un arpeggio estremamente pulito che lascia immaginare una possibile melodia impregnata di dolcezza.

Ma questo non accade, la voce over del narratore ci trasporta immediatamente in un presagio di Guerra, antico quanto attuale. La voce corale femminile si unisce al basso, susseguono intercettazioni radio, mentre l’assolo virtuoso di chitarra lascia presagire un fittizio caos di ciò che sta succedendo, oltre questo schermo che ci immaginiamo di guardare, come fosse un film.

L’imbonitore esalta un preciso pensiero di pace contro ogni interesse. I soldati sono identici, qualsiasi sia la loro fazione. Uomini che rischiano la morte. Sperando, in cuor loro, che non sia il loro momento.

Succede “Game Over”. La voce narrante lascia spazio ad un botta e risposta maschile e femminile, il timbro baritonale si sposa con la voce sopranile, un voluto contrasto degno della musicalità presentata. Si percepisce un’accurata ricerca della sperimentazione, un’avanguardia artistica che punta alla libertà d’espressione oltre il conformismo, oltre le aspettative di massa, verso un ascoltatore di nicchia… Eppure Il canto/racconto in italiano da un lato ci dona l’idea di un racconto popolare. Un forte dualismo regna in noi durante l’ascolto.

“Shopenauer” rinforza, già dal titolo, oltre che dall’intro filosofico, l’idea di una musica che vuole raccontare ma anche spiegare.

Spingere l’ascoltatore verso un uso intellettuale della musica. Nel cinema, potremmo definirlo “di genere”. Questo concetto lo ritroviamo anche qui, una musica “di genere”. Voci dall’imprinting psichedelico, un tocco jazzistico, decisamente progressivo nelle intenzioni. L’eterea immobilità che ci tiene sospesi in questo brano è quello che chiamerei il “tempo di visione”, il tempo che ci occorre per comprendere quello che abbiamo ascoltato e che ascolteremo. Non a caso, a mio parere, il brano dura 9 minuti e solo a metà arriva un testo dallo stampo cantautorale più lungo. Una raccolta di aforismi non citati a caso… del resto “la felicità è in noi e non nelle cose” è una frase apparentemente banale quanto estremamente complicata da comprendere, da fare nostra. Da seguire. Una lettura superficiale di questo brano, non è consentita.

L’idea che “Madre Terra” potesse essere un brano a cappella mi sarebbe sicuramente piaciuta.

Si evolve comunque entro le mie aspettative, l’insieme di voci femminili fa sicuramente la differenza in un brano dove questa impronta ha dato un tocco di sensibilità artistica degna di nota.

Passiamo ad “Ologramma vivo” dove il sound jazzistico si sente più nitido. Non è prevedibile, per questo mi piace etichettarla come musica d’avanguardia vera e propria. Quando ti aspetti un’esplosione non avviene. Quando ti aspetti la voce narrante, non arriva. E questo ci ostina ad andare fino alla fine della canzone, nonostante 7 minuti e 14 secondi di durata, per sentire e vedere con la mente che cosa succederà più avanti.

“Luce Bianca” mi stupisce, con l’inizio di una voce femminile di petto, più calda rispetto alle tonalità acute di prima. E anche questo mostra la capacità dei musicisti, che non fanno niente per puro caso.

“Selfie Ergo Sum” ci porta in un’atmosfera dall’inizio espressionista. Una sensazione di ambiguità. Le voci si mischiano, si anticipano, su superano. Una narrazione ipnotica. Si percepisce qualcosa di falsamente ironico. “La felicità virtuale è assicurata”, una frase a cui succede l’inizio vero e proprio del brano. Un incipit con qualcosa di vagamente dadaista, un rifiuto per la logica eppure che accetta l’umorismo. Niente logica sì, ma derisione, forse per una società che corre troppo in fretta, lasciando alcuni di noi inesorabilmente indietro. Una vera e propria denuncia sociale.

“Bianco Orso” inizia sulle note minimali di un pianoforte. Le due voci lo raggiungono, prima separate, poi si uniscono armonizzate.

Il testo impegnato e di spessore si mimetizza in una melodia estremamente orecchiabile. Fa riflettere, fa pensare, apre la mente a nuove interpretazioni.

Con “Poesia Crepuscolare” giungiamo a termine di questo album. Il brano saluta l’ascoltatore confermando tutto ciò che questo lungo percorso musicale ci ha fatto comprendere, mano mano.

Gli “Altare Thotemico” sono una musica di arte e di prova, di sperimentazione e avanguardia. D’elitè, di nicchia ma dalla voce popolare. Una voce che però va ascoltata con attenzione. Si rivolgono ad un pubblico evidentemente colto, o con voglia di acculturarsi, non solo musicalmente ma anche per i contenuti che esprimono. Una musica di “qualità”… una musica fatta per riflettere.

VOTO: 8 e mezzo

CONTATTI:

FACEBOOK:

https://www.facebook.com/altarethotemico

SITO:

https://www.altarethotemico.it

LABEL:

Ma.Ra.Cash Records

http://www.maracash.store/

 

J. – Postrock.it

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Nàresh Ran – Re Dei Re Minore

Nàresh Ran

Re Dei Re Minore
Nàresh Ran Abbatte le pareti e i limiti delle sale registrazioni e porta la musica on the road. Un gioco danzante di Drone e Postrock.
Solitamente non guardo la biografia di un artista prima di ascoltare un album per una recensione. Mi piace chiudere gli occhi e lasciarmi attrarre dalle semplici vibrazioni e dall’intenzione dell’artista. Dopodiché riverso in parole ciò che ha suscitato in me durante l’ascolto.

Questa volta ho fatto un’eccezione. Dopo pochi minuti di ascolto ho provato la tremenda curiosità di saperne di più di questo artista. Un sound maturo, un esperimento accurato e rifinito. 

Ed è così che mi inoltro nell’ascolto di quest’album leggendo la splendida storia di Nàresh Ran, un artista che è riuscito ad abbattere il “muro” del suono, nel vero senso della parola.

Nàresh Ran, 40 anni, diversi lavori all’attivo, una label molto importante in ambino Drone (Dio Drone) fondata nel 2013.

Un artista di strada, così lo potremmo chiamare. Ma lui non si limita a “suonare” per strada… lui la vive, fino in fondo. Portando con sé tutti gli strumenti per la registrazione. Un esperimento molto coraggioso affrontato da un artista coraggioso, che ha saputo regalarci un lavoro davvero interessante.

Non posso non rimanere affascinato dall’idea del viaggio. Chi non ha sognato la vita On The Road, alla Kerouac, con un Sacco in spalle e il pollice alzato. In un certo senso Questo lavoro ci proietta in un tappeto sonoro che ci fa respirare questa esatta ambientazione. 

Ci ritroviamo a bordo strada, di notte, qualche goccia di pioggia, una radio malandata a tenerci compagnia. Gente che si muove nell’ombra, alberi, auto… respiriamo l’odore dell’asfalto. 

Voci nell’ombra…ci sentiamo un pò voyeurs, come se spiassimo attraverso una finestrino, e vediamo questi personaggi muoversi, interagire, nascere ed esaurirsi. Vibrazioni che si diffondono, a volte morbide, a tratti quasi soffocanti, come un sogno che si trasforma improvvisamente in incubo, e poi di nuovo in sogno.

Questo album è come un prisma, rilascia raggi diversi e colori differenti a seconda del punto di vista. Ogni ascoltatore ci può mettere il suo, ma il risultato è ugualmente valido.

L’alternarsi di suoni e di rumori, di interferenze e di armonie ci porta sul finire dell’album, dove una sequenza di voci, urla e parole ansimanti ci fa entrare in un tunnel sonoro. Sadismo e redenzione tra le pieghe di questo album. Una frase eccheggia dentro di me..

“Possiamo commettere un omicidio, o fondare una religione” (cit.)

Strumenti portatili. un anno di lavoro. Un’accurato lavoro che sicuramente ha molto da dire in ambito Drone, ma che ci sentiamo di includere nella nostra recensione Postrock, essendo un lavoro che esula completamente da ogni griglia sonora e di genere.

Questo album non si può suddividere, così come è impossibile suddividere un viaggio. Un consiglio: mettete questo cd nello stereo, chiudete gli occhi e iniziate il viaggio.

VOTO: 8

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Paul – Postrock.it

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OAK: Forests precede people Desert follow them

OAK

Forests precede people Desert follow them
Un album dai sapori ancestrali. Sonorità che si perdono nella notte dei tempi. Sciamani e sonorità spaziali: questo sono gli OAK
È con molta curiosità che mi appresto ad intraprendere questo nuovo viaggio. 

Questa volta nel mio stereo sta suonando il CD degli Oak. Già il nome mi fa pensare a un qualcosa di leggendario, di antico. Una leggenda di cui si è perso ogni ricordo. Cosa ci vogliono raccontare gli Oak? non resta che ascoltare.

Andrea Melosi  (Lead Guitar), Damiano Borri (Bass Guitar, Synth Programming) e Matteo Sereni (Drums) ci conducono lungo questo viaggio nel tempo, alla ricerca delle nostre origini.

L’inizio è scintillante, morbido. Vedo foglie cadere tutto intorno a me. Si avverte una sorta di rito propiziatorio per quello che sarà il resto del CD.  Un brano molto importante, tanto da dare nome a parte dell’album. Ci sembra di partecipare ad una danza, vediamo gente intorno al fuoco danzare e spargere fiori sul cammino. Noi li seguiamo fedelmente.

Cullati da questa danza, vediamo improvvisamente comparire davanti a noi lo sciamano del villaggio. Il brano cambia forma, siamo al cospetto di qualcosa di importante, di solenne. Ci inchiniamo rispettando il rito magico, le chitarre aprono il rito, le percussioni introducono una batteria psichedelica che ci porta a seguirla in questo rito magico.

Desert Follow Them. l’altra parte del titolo, già.. così come la sonorità. ora più grave, più solenne. Un grido quasi quello delle chitarre di Andrea, che vengono incalzate dalla batteria incisiva e pulita di Matteo. Gli effetti di synth sono ovunque, e aiutano a tessere una trama di album sicuramente ben riuscito già dalle prime onde sonore. Il pezzo chiude con un interessante assolo di chitarra, per niente scontato, poi improvvisamente il silenzio.

Nemerosa. Il synth ci apre le porte di quello che sembra essere un altro pezzo molto interessante. Un maestrale utilizzo di delay ed effetti digitali crea un ritmo incalzante, che richiama suoni della natura, come gocce che risuonano all’interno di una caverna. Lo sciamano ci ha portato fin qui.

Simboli lungo le pareti di questa caverna. Tracce di uomini primitivi. Essi ci raccontano qualcosa. Lo sciamano ci invita a guardare mentre intona una preghiera misteriosa.

Le chitarre titaniche si susseguono e il basso riempie tutto lo spazio della grotta. Ed ecco che il brano cambia, a 4:30, repentinamente. È chiaro ormai che questi non sono semplici brani, ma racconti, preghiere, e così vanno interpretati.

Un simbolo all’interno della grotta ha atttirato il nostro sguardo, lassù, sopra tutti gli altri. Un essere soprannaturale forse? una divinità, o semplicemente Madre Natura? non lo sappiamo, ma ci lasciamo cullare da questa storia magica.

Il simbolo diventa più luminoso, si apre un vortice, noi veniamo attirati al suo interno. Tutto diventa buio.

Siamo giunti così a metà del nostro viaggio. Siamo fose all’interno, nel cuore del Album. Un pianoforte ci accoglie malinconico, quasi materno, abbracciandoci e invitandoci ad alzarci. Quando sentiamo di aver ripreso conoscenza, ecco che una chitarra squarcia il cielo e la batteria irrompe monolitica, come un lampo, un fulmine, a disegnare tracce indelebili. Il basso non ci lascia tregua, sostiene e scalda l’ambiente.

Ed ecco che gli OAK si presentano a noi come ambasciatori di una musica che vuole trasmettere tutta la potenza e la maestosità della natura.

Una forza elastica, versatile, come l’acqua che può accarezzarci ma al tempo stesso spazzarci via in un attimo.

Black autumn. Le stagioni si susseguono, il sole compie il suo giro molte volte nella volta celeste, e questo brano ci fa vivere tutto il suo frenetico susseguirsi. Gli effetti digitali utilizzati in modo magistrale guidano la danza incessante degli altri strumenti.

Athelas. Il viaggio della natura assume forme a tratti scavate, a tratti senza contorni, quasi informi. Uno stupendo assolo di synth ci accoglie a metà del brano quasi come una fenice, un animale leggendario, che solca il cielo di questo mondo primitivo. Basso, chitarra e batteria marciano imponenti. Un suono caldo e luminoso ci riporta in superficie, sul finire del brano. Dove siamo? dove ci troviamo? È stato tutto un sogno? Lo sciamano è scomparso, la grotta non c’è più.

Questo viaggio onirico si conclude con Enchèlados. Non sapiamo se il nostro sia stato un viaggio o un sogno, ma ora abbiamo maggiore consapevolezza di ciò che ci circonda. Ed è così che ci guardiamo intorno, assaporiamo la pioggia che accarezza il nostro volto, Guardiamo gli alberi delle foreste che ci parlano silenziosamente, immersi nella nebbia di Novembre.

L’aria sembra avere un nome proprio, gli animali, le foglie, il vento , tutto fa parte di un mondo più grande, di cui noi non ci sentiamo più protagonisti, ma spettatori.

Un complimento agli Oak, per averci regalato questo lavoro davvero molto interessante. Un album che di sicuro non può rimanere solo, e che richiama un suo seguito, un secondo capitolo di questa storia che noi attendiamo con sincera curiosità e con la voglia di immergerci ancora in questi suoni così particolari.

VOTO: 9

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Paul – Postrock.it

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The Journey of Eric Taylor: Reroute

REROUTE

The Journey of Eric Taylor
La forma artistica di Reroute è molto intensa, un grido anarchico che rompe gli schemi della tradizione, immergendoci in un mondo a tratti onirico, a tratti pittorico.
The Journey of Eric Taylor.

I toni cupi si sentono già dalla prima traccia, “Prolog”. Un prologo ci introduce in un mondo lento e cadenzato per poi assumere una forma impulsiva, di piena forza che si scioglie solo nell’intro del primo vero brano, “In Distance”.

Ritorna il ritmo volutamente ripetitivo e che si fonde con una melodia dall’atmosfera avanguardistica.

La sensazione di qualcosa che sta per esplodere ci avvolge costantemente ma non arriva prima del minuto 2:41, dove ci invade completamente con una cavalcata graduale fino alle armonizzazioni delle chitarre che scompaiono di colpo in un finale nuovamente tetro, dalle luminescenze oscure, espressioniste.

Luci e ombre si alternano nuovamente in “Hysteria”, arpeggi che lasciano presagire, anche qui, un qualcosa di ultra terreno.

L’attesa ritorna straziante, ricrea un habitat volutamente pittoresco, una città onirica in cui è facile perdersi. Le melodie si intrecciano, non si percepisce la realtà dalla finzione, il sogno dal reale. Un cenno di realtà lo abbiamo dal minuto 2:32, dove ci si sveglia dall’incubo, si cercano spiegazioni che culminano in una vera e propria isteria di suoni che ci accompagnerà fino al finale. Un finale che ci dice “voglio svegliarmi”.

Il mondo onirico ci cattura nuovamente in “Memo”, un suono nuovamente ripetitivo, la lancetta di un orologio, una campana che tenta di svegliarci, un metronomo, un pendolo che ci ipnotizza.

E quello dell’ipnosi non è un mondo onirico, ma ci assomiglia. Un mondo interiore, iniziamo a graffiare cercando l’uscita, dal minuto 4:02 iniziamo ad urlare, vogliamo andarcene anche da qui.

“912” ci convince per qualche secondo che forse, abbiamo trovato l’uscita. E allora iniziamo a correre. Corriamo, saliamo delle lunghissime scale. Continuiamo a correre come la donna che sale le scale, nella celebre opera di Legèr. Allora aumentiamo il passo, ma non vediamo mai l’arrivo, le scale non finiscono. E allora al minuto 3:45 ci arrendiamo, passiamo dalla corsa al cammino, per poi riprovarci più avanti. Ma l’arrivo non si vede.

“Decay of Dream” ci accoglie con degli archi malinconici, l’arpeggio suggessivo ci riporta nella tetra ambientazione di un film dal tratto pittorico, dal sapore nuovamente espressionista. Toni cupi, tetri, ombre che si fondono con fioche luci. Un brano di ben 11:14 che lascia trasparire la pesantezza del tema ma non dell’ascolto. Martellante il finale che manifesta e sottolinea la presenza di un’arte nuova, urlando la sua esistenza in un mondo dissacrante.

Più triste che malinconico è l’inizio di “Shutter”, come una presa di coscienza. L’intera traccia è un evolversi in maniera equilibrata, si aggiunge sempre un pezzettino nuovo che completa l’opera. Perde un po’ il suo ambiente pittorico, ma esce dal coro con intelligenza, dando una ventata di cambiamento però mai fuori luogo, mantenendo una linea anti convenzionale, anti naturalistica.

“Awakening” ci sussurra che siamo alla fine di questo viaggio e ci riporta con i piedi per terra.

La forma artistica di Reroute è molto intensa, un grido anarchico che rompe gli schemi della tradizione, immergendoci in un mondo a tratti onirico, a tratti pittorico. Consigliato.

VOTO: 9

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http://www.the-journey-of-eric-taylor.com/

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J. – Postrock.it

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Artura: Drone – Il mondo visto dall’alto

Artura: Drone

Il mondo visto dall’alto
Avete mai immaginato di volare?

No, dico sul serio. Pensate di trovarvi di fronte ad una scogliera, in una notte gelida d’inverno. Immaginate le onde gigantesche di fronte a voi, la brezza marina che sferza il vostro viso, i capelli al vento. Immaginate di aprire le braccia, di chiudere gli occhi…e ora, lanciatevi.

Ecco quello che suscita fin da subitto l’ascolto di questo album profondo e intenso degli Artura. Un album che mischia suoni artificiali e analogici con grande abilità, e ci proietta in un mondo in cui la tecnologia diventa parte di noi.

Artura, è la nuova creatura musicale creata da Matteo Dainese aka Il Cane, in collaborazione con Tommaso Casasola e Cristiano Deison.

In quest’epoca in cui la tecnologia si fonde con la realtà, e il nostro punto di vista diventa inevitabilmente quello delle macchine che noi stesso abbiamo creato, ci sentiamo di fonderci ulteriormente nell’ascolto di Drone, e grazie alla fusione di immagini e sensazioni, sorvoliamo le onde sonore immersi in questo oceano di Realtà aumentata.

Artura, la mitica gatta de La Cuccia Studio, Drone, il titolo ma anche lo strumento utilizzato perregistrare i video che accompagneranno diversi brani del disco, ed infine lo Space Echo, l’ effetto,attraverso il quale sono stati processati tutti gli strumenti del primo album. Questi sono i tre elementi che creano l’alchimia, sentiamo le fusa risuonare, osserviamo il mondo dall’alto con le bellissime immagini regalateci da questi tre ragazzi, ascoltiamo interessati l’evolversi di quest’album.

Un primo lavoro che ha dell’interessante. A tratti ci ricorda qualcosa di già sentito, saranno le sonorità un pò anni ’70, questo basso imperante un pò Pink Floyd, a tratti ci regala qualcosa di inaspettato, e capiamo che la band non si volta indietro, ma guarda al futuro. Se gli anni ’70 sono sicuramente un punto di partenza, qui c’è molto, molto altro, e sicuramente c’è una volontà di sperimentare aldilà del semplice album.


Sorvoliamo questo album, iniziamo da Estranei: Sonorità misteriose, suoni spaziali, aperti, onde sonore, un cielo inesplorato. Fusa: Un ambiente che ha del magico, un basso corposo, suoni digitali ammalianti. Un suono che nel complesso ci fa pensare a forme eleganti che si muovono nel buio della notte, come quelle di un gatto. Sarà per suggestione, sarà per la gatta de La Cuccia Studio, e poi troviamo la conferma nelle ipnotiche fusa che si diffondono durante la traccia. Mona, questa volta si respira qualcosa che ha dell’esotico, forse le percussioni sono le magiche responsabili di questa sensazione.

La Chitarra canta e voci metalliche suonano un motivo che è a dir poco psichedelico.

Tutto scompare e ci troviamo alle porte dell’ignoto con Ostica: qui ci troviamo catapultati in un film di Kubrick, viaggiamo dispersi in un vuoto cosmico che lentamente ci soffoca. Segnali radio ci attraversano da parte a parte, qualcosa si muove nell’oscurità, qualcosa viveva e respirava molto prima di noi, ma non ci è dato sapere. Artengo è un simpatico gioco di suoni analogici e digitali, qui siamo sulla terra, molto piu’ di quanto non ci fossimo già prima. Ci lasciamo ipnotizzare da suoni apparentemente banali, come quello di una pallina da ping pong che rimbalza ripetutamente e si trasforma in ritmo sonoro per nulla scontato. Zeno è la svolta: ora corriamo a bordo di una moto futuristica per le strade di una Tokyo cyberpunk.

Siamo immersi in un anime dal carattere decisamente orientale, qui le pagine le leggiamo al contrario e ci sentiamo sottosopra, qui a grande velocità corriamo.


Rojo, diventiamo riflessivi, i circuiti rallentano, gli occhi robotici ci fissano con inespressività, e noi restituiamo lo sguardo chiedendoci se c’è coscienza dall’altra parte, l’eterno dilemma, l’eterna ossessione della civiltà del ritorno al futuro. Gurken prosegue con un gioco di colori, ci manda su e giu’ come su un altalena. Suoni allegri, ci sentiamo quasi bambini, e giochiamo con il ritmo e con le nostre scarpette da doposcuola. Massive, lo dice il nome stesso, è un pezzo importante, massivo, e ci ipnotizza subito con l’alternanza dei suoni digitali e le melodie un pò lounge da film anni ’80. Chiudiamo in sospensione con Hostess, che ci lascia con un interrogativo importante: dove ci porterà tutto questo progresso? dove ci porterà la sperimentazione, dove siamo diretti, la società, le regole, i suoni, i rumori, i robot, le orchestre classiche, è finito tutto dentro un gigantesco frullatore, e ci ritroviamo shackerati, tanto che non sappiamo, non pensiamo, ma allo stesso tempo siamo e sappiamo.

Se il Post Rock, come abbiamo già raccontato in un nostro precedente articolo, è l’assenza di regole,  gli Artura seguono alla lettera la nostra descrizione.

Non li possiamo ingabbiare, non li possiamo ingrigliare, sono sfuggenti, svolazzanti, ma allo stesso tempo pulsa un cuore elettronico. Gli effetti digitali ci raccontano qualcosa di importante, lo sguardo al passato è importante se vogliamo dedicarci al futuro. Complimenti agli Artura, rimaniamo in attesa del vostro prossimo lavoro, un “In bocca al lupo” da tutti noi della redazione di Postrock.it

Matteo Dainese aka Il Cane: Drums, drum machine, percussioni, space echo, voce, basso,chitarre, piano.

Tommaso Casasola: Basso.

Cristiano Deison: Processing, sounds.

Paul – Postrock.it

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AUGURE – Apnea

AUGURE – APNEA
Avete mai immaginato di volare? 
Augure – trio post-rock/shoegaze di Caserta (CE), formato da Simona Uccella (Basso), Marco Pagliaro (Batteria) e Domenico D’Alisa (chitarra).
L’album inzia con una melodia intensa, trasportante, che ci conduce attraverso i cancelli della mente, e oltre. Un suono Synth si alterna con suoni analogici, strumenti e vibrazioni si fondono e creano una pasta sonora degna dei God Is An Astronaut. Non ci sono esplosioni, nessun colpo di scena, questi suoni sembrano fatti per farti chiudere gli occhi e sognare.
 
E’ così che da Inhale passiamo a Ruunt. Il nostro viaggio è ormai iniziato, abbiamo lasciato gli ormeggi e stiamo navigando nel mare sonoro e caldo degli Augure. Un cielo scuro e nuvoloso ci accompagna lungo il nostro viaggio, colpi di tamburo risuonano in questa seconda traccia, un suono scarno, senza troppi effetti, mi ricorda il suono dei remi nell’acqua torbida di questo mare sonoro.


Il basso si staglia imponente lungo l’orizzonte, e con il suo ritmo pressante da spazio ad una chitarra dolce, una melodia che piange e risuona negli abissi di questo mare.

Jakob, Mogwai, Mamiffer, Slowdive, Isis, Bark Psychosis arrivano chiari fin da subito alla nostra mente. Le onde si alzano durante “The Hunt”, e la nostra meta è ancora lontana, e ad occhi chiusi continuiamo a remare, facendoci strada tra senso e melodia. Tutto torna, tutto ha una spiegazione per gli Augure, riverbero e delay fanno da padroni in questo scenario che mi lascia una sensazione omerica, una voglia di viaggiare senza fermarmi.

I suoni di chitarra si intrecciano, si moltiplicano, si uniscono, Sembrano quasi voci di sirene che ci chiamano da lontano, da un posto ignoto che solo i componenti della band conoscono. Un tuono rieccheggia con l’inizio di “La Chute”, un’onda ci colpisce e ci ritroviamo sott’acqua. I suoni rimangono caldi, profondi, e tutto viene permeato da un suono imperante…qualcuno urla in lontananza, una richiesta di aiuto forse, voci sperse nel vuoto della mente.


Überlauf ci riporta in superficie, afferriamo i remi, torniamo a pensare alla nostra meta, riprendiamo il viaggio.

Qua il ritmo incalzante della batteria fa da padrone, e ci spinge a remare con forza, per riprendere in mano il nostro destino. La chitarra non molla, tiene il ritmo, è distorta ora, accompagna suoni riverbersosi e tanto delay, effetti usati con sapienza e maestria. Per chi Apprezza il genere, gli Augure sono sicuramente una band valida, da ascoltare.

Bisogna aprire le porte a questi ragazzzi, dargli lo spazio che si meritano, e lasciare che siano loro a raccontare il loro album attraverso i momenti che si accompagnano. Questa è una di quelle band in cui forse la suddivisione delle tracce è superflua, perchè la realtà è che album come questi andrebbero ascoltati dall’inizio alla fine, senza play e senza stop.
Un turbinio sonoro che evoca immagini e suoni come conigli dal cilindro.
“A cloud of Gray”, una nuvola grigia sorvola il cielo, grande, enorme, e noi non possiamo fare altro che stare a guardarla, dalla nostra piccola barca, e ci sentiamo piccoli di fronte a questo spettacolo. La chitarra ci accompagna flebile, così come la batteria che stavolta sceglie di accompagnare il pezzo in modo sommesso. Il basso si muove con suoni lenti e caldi, segue la nuvola.


Poi il cambio improvviso: Dalla nuvola cade un fulmine, proprio davanti a noi. La pioggia cade forte ora tutto intorno a noi, le onde ci fanno oscillare sulla nostra barchetta, e sentiamo tutto il potere della natura di fronte a noi. Il pezzo si ferma, la nuvola è passata, la vediamo ancora chiara li, ma ora sta andando oltre, non ci riguarda piu’, e noi con fare Dantesco ci sentiamo di non doverci soffermare, abbiamo un compito che ci attende, e la band ci invita a proseguire come buon Virgilio.

Siamo approdati su una terra spoglia, fredda, siamo all’ingresso di una caverna, ci guardiamo intorno senza trovare punti di riferimento.
“Exhale”, ultima traccia. La band continua ad accompagnarci in questo viaggio, ci vuole mostrare qualcosa, e noi ci lasciamo accompagnare fiduciosi. La batteria risuona martellante, eppure rimane in secondo piano, lasciando spazio ad una chitarra che stavolta suona una litania, un lamento che ci pervade. Questi lamenti provengono forse dalla caverna di fronte a noi? Qualcuno laggiu’ piange, soffre, e noi rimaniamo in ascolto. Il basso ci lascia intravedere una luce nel fondo, colori caldi, fuoco forse, delle torce accese. C’è vita laggiu’, c’è qualcosa. Gli Augure ci mostrano l’entrata, e noi con un cenno decidiamo di accettare l’invito, e con un passo ci addentriamo nell’oscurità fredda.
 
Qui termina il lavoro di questa band, che ha saputo creare un lavoro interessante, un album che ci lascia con la sensazione di dover continuare, un capitolo di un libro che chiede per forza un altro capitolo. E noi li lasciamo con la speranza di rivederli presto sulla scena, per raccontarci l’evoluzione di questo lavoro, con il prosequio di una storia che si promette epica.
 
Paolo M. – Postrock.it
 
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Ropsten – Eerie: alienazione e degenerazione di un mondo tra uomo e macchina

ROPSTEN – EERIE

“Eerie” è uno stato d’animo 
“Eerie” è uno stato d’animo, il racconto in musica della degenerazione tecnologica, un disco dai suoni alienanti che mescola kraut rock, elettronica e space rock con derive psichedeliche.”
Ropsten Eerie cover album

I Ropsen sono una band formatasi nel 2009 come quartetto strumentale. Hanno pubblicato due EP ed hanno partecipato allo Sherwood Festival, aprendo i concerti di God Is An Astronaut e Blonde Redhead. Un bell’inizio che ha dato vita ad “Eerie”, un viaggio sonoro e visivo nei luoghi più nascosti della mente, dove a fatica si distingue la differenza tra umanità e macchine.


Partiamo da Y.L.L.A., unico brano dell’album con qualche accenno di sonorità vocale, se così possiamo chiamarla. Una distopia sonora che viene messa in risalto dagli effetti metallici della chitarra, dal suono crudo dei piatti, dalla cadenza di un basso martellante.

“Grandma’s Computer Games”, dall’inizio che penetra nel cervello, si apre con melodie apparentemente più docili, dando sfogo poi ad alle sonorità space rock, per chiudersi in un finale volutamente caotico. Anche “Globophobia” ha un percorso simile come sonorità, se non fosse per il finale che sembra quasi porre fine a questo caos prodotto dalla tecnologia in un mondo fuori controllo dalla natura umana.


“Batesville” spiazza subito con un inizio apparentemente fuori dal mondo.

Che sia la melanconia di uno spiraglio d’umanità?

Forse, sta di fatto che la chitarra acustica regna sovrana nell’intero brano, con l’aggiunta solo di successivi synth a mantenere l’ambient di un mondo che non ci appartiene più.



“Kraut Parade” ci riporta con i piedi in un mondo che non ha più illusioni, che non può più essere quello di un tempo. Note aspre, acide, sonorità volutamente confusionarie che riportano al caos descritto in precedenza. Il brano è comunque segnato da una ritmica continua e cadenzata che non da segno di mollare la presa se non nel finale.

“Brain Milkshake” mostra un’inquietudine generica, un caos emotivo e di sonorità che spesso sembrano cozzare tra di loro in un’unione di note che tendono alla dissonanza. La situazione rimane stabile fino al finale dove ci sembra di essere all’interno di un videogioco anni ottanta che va a spegnersi, game over.

C’è ancora un ultimo brano, però, “180 mmHg”. Tamburi iniziali annunciano l’ingresso dell’apice di un turbine inquieto, una sonorità travolgente e continua, un sottofondo spaziale e che tende a voler specificare quanto l’umanità sia incomprensibile innanzi alla presa di potere della tecnologia.



https://www.youtube.com/watch?v=EC2M0C74LxQ

La band è meritevole, l’idea è originale: non è il solito viaggio nella psiche umana, è qualcosa di più. E questo è da apprezzare.

Personalmente, però, prediligo il post rock che rispecchia un animo sognatore come il mio, prettamente romantico, che lascia comunque un barlume di speranza per un futuro migliore.

In ogni caso, consiglio vivamente a tutti gli amanti dello space rock e del kaut rock, oltre che del post rock chiaramente, di ascoltarli con attenzione. E soprattutto con lo spirito giusto.


Voto: 6 e mezzo

Tracklist:

1.) Y.L.L.A.

2.) Grandma’s Computer Games

3.) Globophobia

4.) Batesville

5.) Kraut Parade

6.) Brain Milkshake

7.) 180 mmHg

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Formazione: 

Simone Puppato (guitar, keyboards)

Claudio Torresan (guitar, noise, keyboards)

Leonardo Facchin (bass guitar, keyboards)

Enrico Basso (drums)

J. Postrock.it